Roma, venerdì 31 ottobre, presso il Palazzo delle Esposizioni, il gruppo Snoq Factory ha promosso un incontro sulla rilettura della Costituzione alla luce di un nuovo sguardo femminile. Platea piena, età media avanzata.

Non so quali fossero le aspettative delle altre, ma so quali erano le mie: ri/prendere una riflessione collettiva, in un momento in cui si ri/parla di riforma costituzionale, tenendo conto sia della realtà storico-politica odierna che di quello che abbiamo pensato, scritto e detto sul tema, almeno negli ultimi 20 anni. Non è andata proprio così.

L’invito di Snoq Factory (per chi non lo ricordasse si tratta di uno dei due gruppi in cui si è diviso il Comitato promotore nazionale di Se Non Ora Quando) partiva dall’affermazione che “molte cose sono cambiate da quando la Costituzione è stata scritta, ma niente è cambiato come la vita delle donne” e che di conseguenza, se la Costituzione “deve rappresentare e raccontare di tutti e di tutte, l’immagine della cittadinanza femminile deve cambiare da una cittadinanza dimezzata a una cittadinanza piena”.

Per far questo, il gruppo ha deciso di “proporre un primo appuntamento pubblico per parlarne”, invitando cinque donne autorevoli per discutere “cinque articoli … particolarmente significativi, senza retorica, ma anche consapevoli della preziosità della Carta”.

Un’operazione di rilettura critica, simile a quella che impegnò numerosi gruppi femministi all’inizio degli anni ’90: allora, di fronte alle discussioni in corso sulla riforma della Costituzione, alcune di noi ritennero giunto il momento per denunciare i limiti e le contraddizioni del patto fondativo dell’Italia repubblicana. Molto rapidamente però ci si rese conto della possibile deriva autoritaria della discussione e quindi dell’inopportunità di proporre nuovi commi o nuovi articoli. Mentre la discussione mainstream proseguiva, con i risultati noti (proposta di riforma costituzionale approvata nel corso del Governo Berlusconi nel 2005, bocciata poi da un referendum nel 2006), la discussione fra gruppi di donne si fermò presto, dopo l’interessante proposta, fatta da Emma Baeri, di un “preambolo” alla Costituzione per “risignificarne” alcuni termini alla luce della riflessione femminista.

Nella breve introduzione di Alessandra Bocchetti al Palazzo delle Esposizioni di questo dibattito non c’era traccia. Il mancato riconoscimento del lavoro delle donne che ci hanno preceduto è spesso qualcosa che rimproveriamo alle più giovani, ma in questo caso mi risulta francamente incomprensibile, anche perché una delle proposte di riscrittura dei primi articoli della Costituzione all’inizio degli anni ’90 si doveva proprio al gruppo di cui Bocchetti era una delle componenti più autorevoli, il “Virginia Woolf gruppo B”.

Le donne chiamate a illustrare gli articoli erano le seguenti: Luisa Muraro per l’art. 3, Giulia Buongiorno per l’art. 22, Michela Marzano per l’art. 29, Lea Melandri per l’art. 37, Marilisa D’Amico per l’art.51.

L’etrogeneità evidente dei percorsi culturali e politici delle cinque relatrici mi fa segnalare un primo problema: visto che la Costituzione non è un insieme di leggi (come detto esplicitamente nell’invito) ma “un’immagine fondativa del nostro vivere insieme” questa eterogeneità di percorsi andrebbe dichiarata, esplicitata, altrimenti le diverse riletture finiscono per costituire un patchwork incomprensibile. E questo era evidente per chiunque conoscesse le cose scritte in questi anni dalle relatrici, ma anche per chi ha ascoltato con attenzione le relazioni: parole come uguaglianza, parità, differenza, diritti, cura, relazioni hanno significati diversi oserei dire per ciascuna di loro. Ma queste diversità, evidenti per le ascoltatrici anziane, restavano invece non esplicitate e quindi incomprensibili per le altre. Non erano moltissime le donne più giovani (termine che ormai comprende le quarantenni), ma la mattina di un giorno feriale non era certo il momento giusto per favorire la loro presenza.

Mentre le 5 relatrici (Giulia Buongiorno, in video) affrontavano gli articoli scelti, mi veniva quindi in mente la domanda: a chi erano rivolte le relazioni? Se la maggior parte del pubblico era costituito da femministe, coetanee delle relatrici più anziane, donne che, come chi scrive, avevano vissuto in prima persona il dibattito di più di vent’anni fa, a chi si voleva proporre di rileggere la Costituzione, evidenziandone contraddizioni e sue lacune?

E allora la domanda diventa un’altra: qual era l’obiettivo dell’incontro?

Uno dei criteri con cui valutare un’iniziativa politica è la sua efficacia: per efficacia intendo la congruenza con gli obiettivi, la risposta al bisogno/desiderio che ha mosso chi l’ha organizzata.

Mi ponevo questa domanda via via che le relazioni si susseguivano e ancora adesso non so dare una risposta plausibile. Alla fine degli interventi Francesca Comencini ha parlato di una richiesta di “essere ascoltate dalle commissioni che stanno discutendo di riforma costituzionale”. Ma, mi chiedo, ascoltate per dire che cosa? E quale soggetto collettivo farà la richiesta? Un gruppo di Snoq? Anche se si trattasse di tutti i gruppi di Snoq (i due a livello nazionale e quelli a livello periferico che hanno mantenuto il nome e il legame) ha senso che si presentino come “rappresentanti” di qualcosa o di qualcuno?

E ancora: quali saranno le eventuali proposte, in quale luogo discusse e approfondite, da quale luogo politico legittimate?

Già, perché (in questo resoconto, molto poco giornalistico) stavo quasi dimenticando di dire come si è concluso l’incontro. Dopo la lettura di un testo di Mariella Gramaglia di qualche anno fa, tutte le relatrici e le componenti di Snoq Factory sono salite sul palco, un applauso, credo di ringraziamento reciproco, ha coinvolto chi era sul palco e chi era in platea, e tutto è finito lì.

Lasciando interdette quelle che pensavano di iscriversi a parlare, e anche quelle che aspettavano, come minimo, che le relatrici si parlassero, in una sorta di tavola rotonda che forse avrebbe consentito di uscire dal disordine simbolico in cui tutto l’incontro era stato immerso. Uso intenzionalmente il termine “disordine simbolico” proprio perché so che per alcune delle partecipanti rappresenta un problema grave, e mi chiedo quindi come costoro abbiano fatto ad accettare, a far propria partecipando, questa impostazione del convegno.

Mi piacerebbe che qualcuna me lo spiegasse…