Giulietta Stefani spazia su un territorio finora deserto di corpi
femminili. Moltissimi esperti del settore coloniale non prestano
attenzione alle donne, se non nel ruolo di sostenitrici, a vario titolo,
“del colonizzatore”; nelle pagine dell’Autrice, studiosa di storia
dell’emigrazione e del colonialismo e attenta agli studi di genere, il
corpo delle donne, nero e bianco, c’è.Né l’epistemologia delle dinamiche
del potere coloniale, né il silenzio dei “civilizzatori”, né le politiche
di sfruttamento e di oppressione, di co-dipendenza e persino neppure
quelle d’amicizia e d’amore lo possono nascondere. Un corpo spesso
maltrattato e ferito, e due volte oppresso, se nero.

Basti pensare al {{silenzio che militari, civili e clero hanno mantenuto sull’infibulazione, massicciamente praticata nella zona e sperimentata da donne di varie religioni}}. Dallo studio di fonti accuratamente cercate, l’Autrice declina un nuovo paradigma della colonizzazione, indagando anche in termini di quanto abbia contato nella degenerazione dell’immaginario e nella rappresentazione pubblica e privata.

Quella “colonia per maschi”, realizzata in Etiopia” tra il 1935 e il 1941,
interpretata e assolta dai protagonisti in quanto “portatrice di civiltà”,
rientrava in una più vasta quanto {{falsa idealizzazione di un’Africa}} “luogo
di un ritorno alla natura, alla ricerca delle origini e degli istinti
primordiali, una sorta di via regia verso la ripresa della virilità”. Tema
molto enfatizzato in Italia e dominante la letteratura coloniale.

{{Ennio Flaiano}}, che avocava a sé il diritto di “stare con i piedi ben
piantati tra le nuvole”, ne scrisse anche lui d’Etiopia, ma ben
diversamente, in {Tempo di uccidere}, uscito nel 1947.

A sua volta, Giulietta Stefani, esamina i “{{maschi in colonia}}”, le loro
“relazioni pericolose”, il “sogno d’Africa” e ne racconta le sopraffazioni
di genere, di etnìa, di religione, di colore della pelle.

“Davanti a questo maschio colonizzatore, l’intera Africa si presenta come
un corpo di donna da conquistare” scrive {{L. Passerini}} nella Prefazione; storia ordinaria, si direbbe se non fosse che l’ideologia, a contatto con l’Africa, esportando l’Italia, mostra tutto il suo groviglio di
contraddizioni, tanto più violente quanto più negate. {{Sul palcoscenico
d’Etiopia va in scena la nostra società}} senza che possa negare, se non
tacendo e occultando, la verità del nostro, all’epoca, italico, patto tra
i sessi, ancora di buona tradizione. È messa a nudo “la mancata
femminilizzazione, carattere peculiare e di lunga durata della cultura
coloniale italiana, comune alle rappresentazioni dell’età liberale e del
fascismo”.

A questa “italica” carenza, l’Autrice contrappone, attraverso carteggi e
documenti, {{la storia dei corpi, delle soggettività, delle diversità}};
indaga le motivazioni e i risultati di quel combattere e lavorare e
colonizzare credendosi dei benefattori, assolvendosi con “italiani brava
gente”, e compiendo tutto ciò che ciò comporta.

Iene, sciacalli e altri animali selvatici popolano le descrizioni delle
notti africane nelle lettere “dall’Africa”, continente vissuto, nel
recinto etiope, come “paradiso dei sensi”. I corpi dei/delle indigeni/e
sono “indistinti e indistinguibili”. In un clima di omosocialità permeato
di militarismo e razzismo, di omosessualità e di omoerotismi dilaganti
quanto negati, l’unica virilità è quella “conquistatrice” della pretesa
“superiorità del maschio sulla femmina, del colore bianco sul colore nero”.

L’avventura africana scavò nel profondo, mise a nudo qualcos’altro: “{{la
centralità del rapporto tra crisi della mascolinità e civiltà}}”. Questa
idea, molto diffusa e ancora esistente, che la civiltà “indebolisca il
corpo maschile”, sottraendolo ai rigori della “natura”, inclinandolo a
“effeminatezze”, a “degenerazioni”, è quella che “recupera l’Africa come
luogo ideale della rigenerazione del maschile”, naturalmente “bianco”; è
quella che produce Tarzan, re delle scimmie. Scritta nel 1912, da E. R.
Burroughs, l’opera dona a Tartan una “perfezione fisica naturale” cui
tutta la giungla soccombe, anche i leoni, “che appartiene ai bianchi, ma
che i bianchi hanno perso nel rapporto con la civiltà”. Anche Jane è
bianca e non potrebbe essere altrimenti senza incarnare quell’Africa “da
conquistare”, da “civilizzare”, che tutte le nere incarnavano, in ogni
momento e luogo. Tra quest’ultimi, anche le “case chiuse” esportate dagli
italiani con la legge Cavour (che le aveva istituite quasi
contemporaneamente alla leva maschile obbligatoria nel Regno d’Italia).

Paternalismo e sessismo producono schiavitù, dichiarata e nascosta. In
nessun modo, rileva l’Autrice, la paternità “bianca” ha potuto migliorare
non solo le relazioni tra i sessi ma la mentalità, né rendere, in Africa,
“paternità e procreazione” elementi importanti per l’identità maschile
quanto il fascismo li esaltava in Italia, essendo “il razzismo biologico
l’elemento di scontro nel contesto coloniale”. Sono {{quei corpi
“indistinguibili” di madri nere, di figlie nere, di prostitute nere che
impediscono un tranquillo “fare i conti con il passato coloniale}}” e
all’Autrice il merito d’aver recuperato questa impossibilità.

{{Gulietta Stefani}}
_ {Colonia per maschi.
_ Italiani in Africa Orientale: una
storia di genere.}
_ Verona: Ombre corte, 2007
_ pp. 202
_ € 18,00
_ isbn 978-88-87009-99-6

Prefazione di Luisa Passerini