burkiniRosalba Volpi ci scrive: mi sembra troppo bello per  non inoltraverlo come contributo indiretto a un dibattito che ci vede in accordo, fondamentalmente.Perché ostentazione della propria appartenenza religiosa” e “Perché simbolo dell’estremismo islamico”.

Sono queste le parole che David Lisnard, sindaco di Cannes, ha usato per giustificare un’ordinanza con la quale, dallo scorso luglio, vietava alle donne musulmane di indossare il burkini (1), un costume da bagno integrale simile ad una muta da sub, sulle spiagge della Costa Azzurra.

Utilizzando sempre la scusa della presunta laicità dello stato principio esplicitamente citato dall’ordinanza di Cannes, come elemento che verrebbe violato dal burkini…), anche il sindaco di Sisco, un piccolo paese in Corsica, ha deciso di seguire l’esempio del collega sul continente.

Le due ordinanze, che prevedono anche una multa di trentotto euro per coloro che intendessero infrangerla, hanno ovviamente ispirato anche gli esponenti politici nostrani, Lega Nord in primis, che non hanno perso tempo per cavalcare l’onda in arrivo, promettendo che “dopo il no al burqa negli ospedali arriverà un inasprimento delle misure in tutta la regione sul modello della Francia”.

Nonostante i contributi alla discussione siano molteplici, continuano però a risultare assai rari quelli che riescono ad evadere dalla propria prigione etnocentrica.

Per esempio, Paolo Flores d’Arcais, per Repubblica scrive che “Il burkini e il burqa sono due simboli di rapina conclamata ed esibita contro le donne nei loro diritti civili individuali – tra cui una stessa libertà sessuale con l’uomo – ricamati in ogni costituzione democratica. Consentirla significa avvallare e mitridatizzarsi visivamente a questa ripugnante diseguaglianza tra i sessi”.

Lorella Zanardo, autrice de “Il corpo delle donne” , rilascia invece una intervista per l’Espresso in cui afferma di aver indossato il famigerato burkini e di averlo trovato insopportabile.

All’inizio dell’intervista Zanardo sembra farne una questione di mera praticità ma, ad ogni modo, in seguito afferma che “indossarlo non è frutto di una libera scelta delle donne” e invita, concludendo “a rispettare i diritti delle donne tanto faticosamente conquistati. Diritti di cui possono godere anche le donne dell’Islam che giungono da noi”.

Giuliana Sgrena, giornalista per il Manifesto e autrice scrive “Difendere la dignità della donna garantendole la parità vuol dire respingere tutte quelle discriminazioni che la donna ancora subisce, soprattutto nel mondo musulmano. Vogliamo schierarci dalla parte dei fondamentalisti che considerano le donne impure e le obbligano a seguire i loro diktat o vogliamo sostenere quelle che lottano per liberarsi da una religione invasiva dello spazio pubblico e politico perché non ha ancora avviato un processo di secolarizzazione?”

Tutte le donne al mondo, che ne siano più o meno consapevoli, vivono una oppressione di genere.

Questa oppressione di genere, viene veicolata attraverso molti strumenti tra cui citiamo il sistema economico capitalistico, la società fondata sulla una dirigenza esclusivamente maschile, le credenze religiose in accordo con i modelli di famiglia patriarcale e con l’accumulazione familiare della ricchezza.

Benché l’oppressione di genere accomuni tutte le donne è necessario però ricordare come questa oppressione sia versatile, e si adatti all’ambiente che incontra, esattamente come un virus.

La liberazione, ad esempio, delle donne sudamericane, le loro lotte, le loro pratiche saranno perciò senz’altro diverse dalla lotta femminista proposta dalle donne inglesi di inizio secolo, così come questa sarà di nuovo differente dalle lotte delle donne italiane del futuro, così come quest’ultima ancora sarà senz’altro diversa dalla battaglia sempre femminista che le donne islamiche conducono contro il patriarcato.

Così come non esiste La Donna, una categoria astratta, assolutamente generalizzante e per nulla rappresentativa, così non esiste Il Femminismo, quello unico, autentico, dogmatico.

Esistono le donne, esistono i femminismi, esistono le liberazioni, e sono davvero poch* quell* che se ne rendono conto proponendo infatti una via a senso unico verso l’emancipazione, verso il solo empowerment.

Ogni donna, ogni gruppo di donne, ogni femminismo trova da solo la sua chiave, il suo modo, la sua via in risposta alle proprie esigenze, alle proprie caratteristiche, in rapporto alle proprie volontà.

L’intersezionalità delle lotte permette di tenere assieme tutti questi femminismi, tutte queste forme di liberazione ma bisogna essere sempre caut* nel non sovradeterminare con le proprie pratiche e obiettivi, quelli delle altre, cadendo non solo in un atteggiamento paternalistico ma anche coloniale.

Vietare alle donne islamiche di indossare il burkini in spiaggia è esattamente questo: è imporre ad un gruppo di donne, che già a modo suo lotta, anche nelle contraddizioni, anche in modo conflittuale con il proprio patriarcato, una liberazione che non è germinata nelle loro menti, che non proviene da loro stesse.

Non possiamo insegnare alle donne musulmane come essere femministe, come liberarsi ma dobbiamo osservarle autoliberarsi, autodeterminarsi, giungere da sole, sulle loro gambe alla conclusione, eventualmente, che quel capo d’abbigliamento sia un simbolo del dominio e del possesso maschile dei loro corpi – ma prepariamoci, perché potrebbero anche arrivare a conclusioni diverse dalle nostre.

Possiamo e dobbiamo, naturalmente, entrare in contatto con loro, ma non in termini autoritari ma aperte al confronto, disponibili al dialogo e pronte a trovare percorsi collettivi da condividere.

Non possiamo in alcun modo ergerci ad essere loro maestre, loro mentori, ricalcando quello che abbiamo provato sulla nostra pelle. Non possiamo essere per loro dei patriarchi al femminile, dicendo loro, di nuovo, cosa fare, come vestire, cosa pensare e senz’altro non possiamo stabilire noi, con supponenza e arroganza, cosa sia meglio per loro.

Vedere queste donne indossare un capo integrale come il burkini in spiaggia non ci consegnerà passivamente all’assuefazione di fronte alla discriminazione sessuale, al contrario porterà ricchezza ad un dibattito che, in questo momento ristagna nei cosiddetti paesi civilizzati e che stenta a coinvolgere le dirette interessate.

Starà proprio nella conflittualità visibile e tangibile del doppio standard a cui sono sottoposti i corpi di donna – le donne scoperte da una parte e le donne coperte dall’altra – a sottolineare quanto, paradossalmente, questi due outfit e queste due culture abbiano molto in comune.

Vedere quanto queste culture in realtà abbiano in comune elementi di oppressione di genere, seppur in forma diversa, aiuterà anche la discussione ad uscire dalla pericolosa polarizzazione tra femministe – occidentali e illuminate – e sostenitrici del fondamentalismo islamico.

La situazione è molto più complessa e stratificata, ma sarà proprio confrontando quello che accade sul corpo delle donne arabe con quello che accade sui nostri corpi che si scopriranno universi in collisione, in intersezione, lotte in comune. Si scoprirà che ad ogni modo, qualsiasi cosa una donna abbia indosso o abbia lasciato nell’armadio, verrà comunque, inevitabilmente giudicata secondo i rigidi parametri e standard promossi dalla cultura patriarcale del posto.

Giulia Blasi, scrittrice e blogger edita, infatti “Il mio corpo non è libero. Il mio corpo – il corpo di una donna – è sempre veicolo di significati, pubblico demanio, proprietà altrui. I centimetri di pelle che scopro segnalano la disponibilità sessuale, la disinvoltura, l’agio con cui vivo la mia forma. Il mio corpo è un messaggio e l’abbigliamento è il suo alfabeto.[…] Se qualcuno, ora e subito e nelle presenti condizioni culturali, ordinasse alle donne occidentali – a tutte, senza distinzioni – di uscire per strada nude per provare la loro libertà dai condizionamenti, ci sarebbe una rivolta popolare. Oppure, com’è più facile, nessuna uscirebbe più, o sarebbero in poche a farlo; molte lo farebbero sentendosi a disagio, esposte. L’attacco frontale alle donne musulmane che scelgono o subiscono la copertura quasi integrale non ha come effetto la loro liberazione, ma il loro ulteriore confinamento.”

Desiderare uno stato laico, inoltre, è legittimo ma non sono assolutamente legittimi i mezzi con i quali, i due sindaci francesi stanno cercando di promuoverlo.

Non solo questa ordinanza stabilisce da quali religioni sia necessario tenersi alla larga instaurando un processo di laicizzazione ma, in questo teatrino malriuscito, colpisce non il patriarcato islamico, non gli aspetti misogini di quella credenza, ma colpisce le donne, privandole di un capo, privandole di una tradizione, privandole di un aspetto identitario, privandole del mare.

Nacira Guénif-Soulimas, sociologa e antropologa francese nel suo articolo “Né puttane, né sottomesse o molto puttane, molto velate? Le inevitabili contraddizioni di un femminismo in stato d’ebrezza” scrive “l’obiettivo di coloro che richiedono a gran voce una legge contro il velo è l’invisibilizzazione dell’Islam nello spazio pubblico. L’Islam è visto come una religione totalizzante, come un’etichetta o addirittura come un fardello; gli individui sono costretti a proclamandosi musulmani-laici per esistere in uno spazio politico che, comunque, non cessa di strumentalizzare le comunità, che non cessa di spingere tutte e tutti a definirsi secondo delle identità tranciate”.

Se proprio si volesse fare una battaglia contro le confessioni per uno stato laico e democratico, temo che quella dell’esclusione non sia la strada giusta. O la battaglia per l’aconfessionalità vale per tutte le religioni, altrimenti, a costo di essere tacciat* di essere benpensanti, il sospetto è quello che dietro queste belle intenzioni, si nasconda solo razzismo, sessismo e islamofobia.

E forse, il fatto che tutta questa discussione nasca in seguito alla presa di coscienza della vicinanza delle donne arabe al “nostro” mondo, in seguito alla presa di coscienza che queste donne passeggiano sulle “nostre” spiagge, fanno il bagno nei “nostri” mari, che sono vicine a noi, fisicamente, che vivono le “nostre” stesse città e non in paesi lontani di cui non ricordiamo neanche il nome, potrebbe essere ulteriore motivo di sospetto.

Come si legge sul blog di Incroci Degeneri “ Invece di affannarsi tanto nel tentativo di trovare il modo per strappare civilmente il velo dal capo di altre, pretendendo di liberarle, si dovrebbe trovare il coraggio e l’onestà di strappare il velo dell’ipocrisia”.

(da donnenellacrisi)

NOTA  (1) utilizziamo qui il termine burkini come è stato riportato nel dibattito e nelle cronache. Termine che alcune/i hanno trovato offensivo (per diversi motivi) ma che è anche un marchio registrato (http://www.burqini.com/)