ingraoIl parlamento di Ingrao

In occasione del primo anniversario della morte di Pietro, avvenuta il 27 settembre 2015, pubblichiamo stralci di conversazione avuti con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti tra il 2009 e il 2012 presi da (newsletter@centroriformastato.it)

Tra il dicembre del 2009 e l’estate del 2012 Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno intrattenuto una fitta serie di conversazioni con Pietro Ingrao. Sono state registrate e trascritte. Il proposito era quello di realizzare un volume. Alcuni capitoli sono pronti per la stampa, altri attendono una revisione. Nel marzo del 2011, frutto di quegli incontri, fu pubblicato “Indignarsi non basta” presso l’editore Aliberti, che ebbe grande diffusione ed è stato tradotto in diverse lingue. Gli stralci che qui si stampano risalgono ad un incontro della primavera del 2011. Li abbiamo scelti per l’attualità che i giudizi di Pietro Ingrao rivestono riguardo alle discussioni su Parlamento e legge elettorale.

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Il parlamento di Pietro Ingrao

Per impegnarmi in Parlamento, nel 1959 preferii lasciare la segreteria e l’incarico di responsabile dell’Ufficio di propaganda del partito. Rinunciavo a svolgere un ruolo che veniva considerato di particolare rilievo, forse il secondo per importanza dopo quello di segretario. Ero persuaso che ci trovavamo in una fase di profondo movimento, una mutazione che coinvolgeva allora forze politiche e gruppi sociali. Il Parlamento, il gruppo parlamentare, ero convinto fossero, come ho scritto, “un osservatorio da cui si poteva capire quello che stava maturando. E si poteva non solo capire, ma vivere direttamente un punto che mi cominciava a premere molto: che succede nello Stato; o meglio che cosa volevamo che succedesse nella sfera delle istituzioni”, [Le cose impossibili, p.111] delle decisioni pubbliche. Capire, insomma, in che modo si combinavano, con contrasti ed influenze reciproche, le forme di partecipazione e di allargamento del potere nella società con le forme della rappresentanza pubblica. Compio quella scelta intenzionato a verificare il ruolo effettivo, vorrei dire reale, del Parlamento, constatare quali poteri esercitasse e quale funzione svolgesse nel governo e nell’organizzazione della società per comprendere cosa poteva essere, o cosa volevamo che fosse, la democrazia rappresentativa nel progetto politico del Pci. Insomma, ragionare sulle forme della democrazia partecipata, sul ruolo delle autonomie locali e delle Regioni, previste dalla Costituzione, ma non ancora, all’epoca, attuate. Del resto, come ho scritto, “ormai avevo capito da tempo l’utopismo delle ultime pagine (da me amatissime) di Stato e Rivoluzione in cui Lenin ragiona sul deperimento dello Stato e sull’avvento di una democrazia diretta”, [Pietro Ingrao, Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Roma, Editori Riuniti, 1990, p.111.] che prefiguravano, o illudevano, un integrale superamento delle istituzioni rappresentative. Al contrario, per altre vie, ritenevo si dovessero elaborare le forme adeguate e originali per renderle compiute sedi di effettiva democrazia, di libero confronto politico nella formazione delle scelte su questioni di interesse generale. Un Parlamento non inceppato dagli apparati e dalle burocrazie, non sopraffatto dai poteri economici e finanziari. Per trovare risposta a queste domande mi era più utile lavorare a Montecitorio che non a Botteghe Oscure.
[…]
Il Parlamento è stato per me innanzitutto il luogo del confronto. Nell’Aula mi trovavo di fronte a “l’altro da me”, ed ero obbligato ad interrogarmi, a risolvere nel vivo del confronto, anche aspro, il nodo di fondo: quale legge? Nel Parlamento che io ho frequentato era viva e concreta la pratica del confronto. Non solo nelle forme canoniche dei rapporti tra i gruppi politici, tra maggioranza ed opposizione, ma nelle relazioni che si stabilivano tra i singoli deputati, nelle lunghe e spesso intense giornate di lavoro comune. Non saprei fare paragone con altri paesi, ma in Italia questa esperienza c’è stata e non è stata un nulla. L’ho vissuta da deputato, poi come capogruppo parlamentare e infine quale Presidente della Camera. E ricordo molto bene l’impressione che ebbi, quando seguivo per “l’Unità” i lavori dell’Assemblea Costituente, dei rapporti, tutt’altro che formali, tra Togliatti, Nenni, De Gasperi, Dossetti. Ovviamente i rapporti non sono stati sempre e solo di confronto. Scelba è stato la negazione del rapporto con “l’altro” e non era certo isolato. In tutta la Dc, dopo il 1948, si affermò una sorta di prepotenza vittoriosa. Nella stessa Aula parlamentare vi erano scontri fisici, ricordo deputati che tentavano di assaltare perfino lo scranno della Presidenza. Ma ricordo anche la qualità e l’intensità del confronto politico. Intervenivano regolarmente i laeder, ed i loro discorsi erano densi di contenuto, quanto curati nella forma. Poi ci si incontrava in Transantlantico e si ragionava su quanto era accaduto in Aula. E ci si preoccupava di come comunicare all’esterno, da parte nostra di informare e coinvolgere i militanti di partito. Togliatti veniva a “l’Unità”, subito dopo la fine della seduta, per correggere personalmente il suo discorso. Lo vedo ancora, tutto sudato, tanto che le compagne avevano sempre pronta una camicia fresca, concentrato a modificare anche le virgole, prima di consegnarlo al redattore per la stampa. Bisognava far presto, per i tempi stretti di uscita del giornale. Del resto tutta la stampa dava conto in modo minuzioso delle cronache parlamentari. Insomma l’azione politica in Parlamento era molto mossa, tutt’altro che rituale. Credo che oggi sia molto sottovalutato, per non dire dimenticato, quanto abbia contato il Parlamento nella vita politica del paese. Non si facevano chiacchiere, si entrava nel merito delle scelte e delle decisioni del governo. In quel confronto mi sono formato, come giornalista e come politico. Ed è nella concreta pratica parlamentare che è maturata la mia concezione della democrazia e la mia riflessione sulla centralità del Parlamento. A voi oggi può sembrare improbabile, ma in quegli anni vi furono dibattiti molto interessanti, di grande rilievo per le prospettive del paese.
[…]
Vi sono due facce nel mio rapporto con la legge: la prima, fondamentale, è che noi venivamo da un’illegalità che aveva raggiunto abissi, sbocchi rovinosi: l’arbitrio del potere era divenuto totalizzante. E’ questa la parola che restituisce l’evento: la prepotenza, la concentrazione del potere, il comando nelle mani di tiranni. L’illegalità e l’arbitrio sono stati un connotato anche simbolico del nazifascismo. Non erano solo praticati, erano esplicitamente dichiarati, quale portato intrinseco alla totalità del comando. Presto, molto presto questa rivendicazione dell’arbitrio si è imposta in tutta la sua brutalità materiale: arresti, confino, campi lager. Si impadronivano del potere nel modo più selvaggio e cancellavano tutto l’impianto di istituti e regole, nato dalla Rivoluzione francese. Per questo la riaffermazione delle regole e del Parlamento, il luogo in cui si esercita il controllo sul potere, fu per noi un evento straordinario, coinvolgente. Insomma, la Costituzione cancella la violenza e l’arbitrio. Per il modo stesso in cui si realizza, nella pratica e nelle relazioni tra i costituenti, la scrittura della Costituzione ha significato per ognuno di noi compromesso ed alleanza con “l’altro”. Questo è il senso che ha avuto allora. Nel compiersi della vicenda costituzionale avviene una svolta nel rapporto con l’avversario. Non solo rispetto alle dittature nazifascista, ma al clima politico degli anni Trenta, in cui maturò l’avvento del nazifascismo. L’Assemblea Costituente fu vissuta e percepita come incontro, altamente simbolico, tra sensibilità e tradizioni differenti. Ricordo bene l’aura attorno alla Commissione dei 75. Quell’origine ha segnato in profondità l’esperienza politica, l’atteggiamento e la sensibilità di ciascuno di noi. Metterlo in ombra significherebbe non capire quale forte discontinuità ha rappresentato la Costituzione, e quali differenze ha prodotto nella comunicazione tra persone di diversa appartenenza politica. Su di me influì soprattutto nei rapporti con il mondo cattolico, con la Dc, o con alcuni gruppi dentro la Chiesa. La tradizione liberale in me ha influito in misura minore, e non fu politicamente determinante nella vicenda politica di quegli anni, nonostante l’autorità e l’impegno di alcuni costituenti, primo tra tutti Piero Calamandrei. Guardavamo, comunque, con rispetto ai “padri costituenti” e al confronto sulla scrittura della Costituzione. Questa è la prima, essenziale, faccia storica e politica del mio rapporto con la legge. Poi, in me c’è un senso del limite che mi induce ad accettare fino ad un certo punto la sovranità della legge e del potere politico. Ed è l’altra faccia di quello che sono. Da una parte sono stato immerso nella politica e nel Parlamento, vi ho lavorato con passione e convinzione, avendo sopratutto in mente l’interrogativo sul rapporto con “l’altro”. Ripeto, l’ho fatto per scelta, nutrita di una convinzione profonda. E la mantengo tuttora. Ma c’è un “però”… un risvolto di cui trovate testimonianza nella ricerca poetica. E’ una diversa convinzione che mi accompagna per tutta la vita. E dice molto di me e della mia storia. C’è un di più dell’umano, non posso dire “indicibile”, ma insomma qualcosa di simile… c’è l’esperienza erotica – molto l’esperienza erotica – , e c’è il rapporto con il paesaggio… Ci sono esperienze che alludono, tutte, ad un rapporto con l’esistere.

[…]

Trema la nostra vita
percossa dal bisogno.
Si spacca nella sete.
Precipita
la vita nostra.
Senza appello.
Gridi, dubbio, paura,
abbracci: tutto
è nel conto.
Ma trema,
domanda la nostra vita.
Muore.
Morendo domanda:
quale legge?

Una poesia de Il dubbio dei vincitori: il travaglio del vivere, il suo oscillare. In questo tremore del bisogno, qual è il criterio, quale ordine dispone delle nostre vite? La condizione umana è bisogno. Siamo incalzati, “percossi”, dalla sete di appagamento del bisogno. Il patimento dell’esperire umano, tutte le emozioni muovono dal bisogno. Gridi, paure, dubbi, ed abbracci: anche l’abbraccio, il contatto è esperienza di un bisogno, inappagato. La vita è bisogno, senza possibilità di appagarsi. “Precipita”: nei momenti in cui avvertiamo quest’impossibilità, “senza appello”, di soddisfare il bisogno, c’è crisi, è una ferita dalla quale non troviamo riparo. Fino all’ultimo la vita di ognuno di noi interroga l’ordine, pone la questione sul senso e l’adeguatezza del sistema di regole in cui la vita è stretta. L’intero testo della poesia parla di questo assillo. Non c’è risposta a questo continuo, arso, interrogarsi. E non ho trovato compiuta risposta nella politica. E’ così. In fondo, tutto questo libro di versi nasce da questo assillo, e ripropone quella domanda.