“Questa notte è dedicata a chi crede in un futuro di pace e libertà”.

La frase non è stata pronunciata da un’attivista femminista o pacifista nel corso di un evento politico, ma da una cantante al momento della sua vittoria nella prestigiosa vetrina europea del settore canoro Eurovision Song Contest, svoltosi la scorsa settimana a Copenaghen. Non vedendo mai la tv a casa, trovandomi fuori e senza internet ho acceso il televisore, e per fortuna: mi sono infatti imbattuta nella serata in cui cantava Conchita Wurst, che è risultata poi vincitrice assoluta dell’evento.

La stampa ha preferito riportare la frase successiva a quella che ho evidenziata, ovvero We are unstoppable (siamo inarrestabili, nessuno ci può fermare) che però senza la prima suona alle mie orecchie come vagamente minacciosa, se non arrogante.

È, al contrario, nella sequenza delle due affermazioni, inaspettate per il contesto, che ravviso la forza simbolica di questa vittoria, non solo canora ma anche e soprattutto culturale.

La canzone è bella, sì, ma altrettanto potenti ed evocative, per testo e voce, lo sono quelle proposte ad esempio da Malta, Norvegia e Svezia, per citarne solo alcune.

Non c’è dubbio che Conchita Wurst abbia vinto per la sua voce e per l’orecchiabilità della melodia di Rise like a phoenix, (paragonata dalla critica alle atmosfere delle musiche dei film di James Bond), ma non sfugge che il suo trionfo sia dovuto anche al coraggio di apparire in modo dirompente: Conchita ha un corpo minuto, fasciato per l’occasione in un abito di lamè dorato, il volto magro dove spiccano grandi occhi scuri accentuati da lunghe ciglia cariche di mascara e, sotto e intorno alla bella bocca ben disegnata, ecco una ordinata, ben modellata barba marrone.

Un perfetto, simmetrico, decisamente choccante mix, equamente distribuito tra il nord e il sud della geografia del viso, di femminilità e maschilità.  

Esibitasi così nel Contest del 2012, osteggiata in ogni modo quest’anno da Ucraina, Bielorussia e Russia, all’indomani della promulgazione della legge omofoba voluta da Putin (i tre paesi hanno fatto davvero quasi di tutto per escluderla dalla gara) Conchita Wurst dice di sé non di essere una trans, ma piuttosto una drag queen, e di aver deciso di apparire così come vittoria sulle sofferenze che Tom, (così è registrata all’anagrafe austriaca), ha subìto da adolescente da parte dei bulli di turno.

Parlando con un amico attore, uomo non comune che da poco ha aperto con due colleghe lo spazio culturale e conviviale a Torino “Il molo di Lilith” si ragionava sulla formidabile attrazione che, volenti o nolenti, esercitano sia sulle donne che sugli uomini questi esseri umani, in transito o meno: perturbanti per l’ambiguità e la convivenza delle identità costruite come opposte e complementari dalla cultura mainstream, sono il memento della nascosta, ma presente coabitazione di maschile e femminile in ciascun essere umano.

Costruita o meno per lo spettacolo (poco importa, la dedica della vittoria è una affermazione importante) la maschera di Conchita appare interessante perché si presenta in modo ossimorico: è un uomo (la barba) con le fattezze, movenze, grazia ed emotività molto femminili, o viceversa è una bella e conturbante femmina con una inaspettata traccia di virilità.

Possono essere affascinate le donne eterosessuali senza offuscarne la primogenitura, perché non le minaccia come antagonista aggressiva (quella barba è comunque un ostacolo per taluni uomini appetibili), e al contempo può essere seducente per molti uomini, che nonostante la barba, (anzi magari proprio per quello), sentono in lei la presenza della resa femminile. Tom, infatti, tranne che nella barba, (segnale di virilità), ha fatto una scelta di cessione di potere, e si presenta donna, esaltando, in modo non sfacciato ma contenuto e aggraziato, le caratteristiche femminee come da tradizione. Non si resta, comunque, indifferenti di fronte a Conchita, e questo è già interessante.

Ecco quello che sono, cantava Conchita Wurst due anni fa al Contest che oggi ha vinto con un brano che ribadisce, nella metafora di morte e di rinascita del magico uccello mitico, che è nella trasformazione, nella contaminazione, e non nella fissità dei ruoli che trovano spazio l’emozione, la gioia, la creatività, la pace e la libertà. Alla faccia di Putin e degli scherani delle destre europee che oggi inneggiano al mostro.