RECENSIONE DI FLORIANA COPPOLA

Il tempo dei fatti, il tempo del viaggio, il tempo delle voci. Un racconto corale, costruito con intersezioni prosastiche e intime, una scrittura narrativa di forte impatto, che usa come cifra vincente l’intervista biografica.

Gisella Modica disegna così il mosaico formato dalle tessere delle storie delle tante donne contadine che tra il 1944 e il 1950 intrapresero l’ardua lotta per l’attuazione della riforma agraria che sanciva la distribuzione dei terreni incolti alle cooperative. Si andava in massa dal paese fino ai feudi occupati e si piantava la bandiera rossa comunista o bianca dei democristiani, si tracciava simbolicamente sul terreno un solco con l’aratro, ma dopo il 1948, di fronte all’arroganza dei feudatari si seminava pure, provocatoriamente, e a giugno si raccoglieva “il bello frumento”.  La riforma fallì a causa della collusione tra agrari, mafia e forze dell’ordine, i contadini emigrarono, ma l’esperienza di formazione rimase per le tante donne che avevano trovato  nel partito comunista e nelle camere del lavoro un luogo dove rivendicare la propria dignità.

L’intervista narrativa per Gisella Modica è una scelta politica,  la fonte migliore per trovare le parole più adatte e ridare spazio a queste voci sommerse. Donne dimenticate considerate dal partito comunista e dalla chiesa  “inaffidabili” perché portavano nei cortei le bandiere rosse insieme allo stendardo con il cuore di Gesù. Con l’ intervista si rivive l’ esperienza. Ogni donna esce dal silenzio e diventa protagonista. Acquista quella luce che prima era offuscata dalla percezione storica di essere ai margini della storia degli uomini.

Gisella Modica parte da qui per dare voce alle tante donne che non avrebbero mai preso tempo e spazio per parlare della loro storia, riportando alla luce sedimenti della memoria.

Chi sono quelle voci?/Voci confuse, inafferrabili, che giungono da lontano, eppure a tratti così vicine che sembrano provenire dal mio ombelico./ Richiami forse di una memoria non del tutto spenta./Reminiscenze di un sapere antico rimasto intrappolato tra le fibre del mio corpo, e preme per uscire./ O di un desiderio che cova, aggrumato nel fondo della coscienza, sommerso da acqua e sabbia che pian piano riemerge- Sento già il gorgogliare di bollicine -/ Ridestato dal fragore di un boato in lontananza.

Condividere le emozioni che nascono da un racconto corale trasformato in parole scritte è un atto politico, oltre che una strategia esistenziale di costruzione di sé come persona. Gisella Modica offre la possibilità alle donne contadine di tornare a essere voce viva di storie viventi.

L’io narrante in viaggio con un registratore a tracolla, incrocia quello delle donne cercate o incontrate per le strade e per i vicoli, sulla soglia delle casa, e scrive sottotraccia la doppia nascita di sè, figlia e poi madre e di nuovo capace di ripartorire se stessa.

Voci che sembrano provenire sott’acqua, si mescolano a sottili lingue di luce/ Fluttuando, le figure si fanno più vicine/ Sul capo reggono canestri di vimini colmi di fave e finocchietti/Bisbigliano o ridono/Dove andiamo? Alle terre! Alle terre!/Credevo che il comunismo fosse un gioco/Il comunismo è una fiamma nel cuore!/ Dove andiamo? All’inferno.

Le storie delle donne si mescolano alla storia personale di Gisella Modica. Il libro segue infatti due binari: una direzione temporale, scandita dai mesi riportati all’inizio di ogni capitolo. Un diario di bordo intimo e sofferto, dove l’io narrante si racconta e racconta la trasformazione gestazionale più profonda, il legame tra madre e figlia, vissuto e rivissuto nel corpo durante la sua nascita, ripreso e reincarnato nella nascita della figlia. In questa dimensione del tempo che scorre e ci cambia esiste la coscienza del corpo in tutte le sue sfumature, coscienza riportata nella carne, nel movimento vitale dell’inspirazione e dell’espirazione, atti di esistenza e di resistenza che ci inducono a continuare a immergerci nelle viscere del giorno. In queste pagine Gisella Modica sperimenta il codice lirico, la prosa poetica, la partenza e il ritorno quotidiano alla corporeità del legame e dell’abbandono, una scrittura che respira e vive con lei, una testimonianza intima e profonda dello sviluppo della persona e della donna. Consapevolezza del distacco e della separazione della madre e dalla madre, dell’essere figlia irrisolta e in via di riparazione e soggetto che diventa politico, trascinando nella pratica politica le sue contraddizioni, i ripensamenti e le regressioni esistenziali. Il bisogno di essere riconosciuta dall’altra, da colei che ti ha vista per prima e per prima sostenuta,  bisogno spesso inevaso. Eppure il legame resiste, tra riconoscimento e tradizione, tra mutazione e permanenza nel cerchio materno. Il destino di Kore che deve attraversare l’inferno per sfuggire agli dei, la stoicità di Proserpina che guarda e veste l’attesa con le parole dell’oikos. Fino alla morte. E sono proprio le pagine sulla morte della madre le più commoventi, piene di una forza e di un’ introspezione che rimangono incancellabili.

Non rispondeva. Non sapeva. Da grande avrei appreso tra madre e figlia il punto di ricamo non va insegnato: va svelato. Come una scrittura segreta. Un codice esclusivo fatto di segni impressi nella stoffa come pagine di un testamento unico e prezioso ereditato a sua volta dalla madre per tramandare quali segreti, quali insegnamenti? O forse semplicemente un gesto al posto delle parole difficile da condensare, per lasciare traccia di sé sui capi che un giorno avrei adoperato, mantenendo vivo con l’uso quotidiano, pur nell’assenza, il legame.

Questo passaggio tra il reale e l’immaginario, tra la vita e la morte attraverso il ricamo e la parola, il ricamo della parola, la rete di punti di dritto e rovescio che servono per fare la tela, ecco il punto di congiunzione tra i due binari tracciati, i segni che uniscono chi vive, chi rimane e chi va via, in una danza perenne di fughe e di abbandoni, di nascita e di rinascita.

In questa determinazione corale, il secondo binario, quello spaziale, oltre a raccogliere le storie delle donne, riesce con una scrittura di grande potenza narrativa a veicolare  la memoria recuperata di tanti aneddoti presentati come  quadri con  squisite sceneggiature che in poche pennellate fanno vedere le protagoniste intervistate.  Diventa vincente inoltre  aver riportato in luce gli ingredienti costitutivi della sapienza femminile contadina, una capacità ironica e autoironica nel posizionarsi all’interno del contesto politico e culturale, una densità esistenziale che afferma il proprio valore a prescindere dallo sguardo degli uomini e delle loro maschere, delle loro divise teatrali,  una consapevolezza arcaica e sapienziale delle vere forze che guidano il mondo, che la vita si svolge altrove e si gioca in altre dimensioni: la morte e la malattia, la nascita e il parto, la cura dei figli e dei vecchi, la preparazione del cibo. Il partito e la chiesa, la rivolta, il comunismo e la rivoluzione sono  strutture culturali di attraversamento ma non di identificazione,  sono strumenti di libertà per gridare l’indignazione contro le ingiustizie ma non scopi a cui immolare la propria quotidianità. Alla fine di questa militanza politica, le donne  non reagiscono da vittime,  dimesse oppure vinte. Sono ironicamente consapevoli che spesso gli uomini chiudono le loro anime in giochi che li  immiseriscono. Con sarcasmo e dolcezza, affermano un’altra logica, quella della relazione.

 

Gisella Modica, Come voci in balìa del vento. Un viaggio nel tempo tra storia personale e storie collettive , Iacobelli editore, pp.208, 13 euro