voto_donne_cambiamentiLuisa Corazza

—  Riflettere su che cosa abbia significato riconoscere il diritto di voto alle donne è l’obiettivo di questo numero monografico, dedicato al settantesimo anniversario dall’accesso delle donne all’elettorato attivo e passivo. In che modo poter votare e poter essere elette ha inciso sul ruolo delle donne nella vita pubblica? Quanto è stato importante, e quanto conta ora, assumere un ruolo politico – come elettrici o come rappresentanti – al fine di sancire il pieno ingresso delle donne nella sfera sociale, economica, istituzionale?

Non è facile dare una riposta, e del resto dai contributi proposti – che ricostruiscono il significato storico del riconoscimento del voto femminile, il quadro normativo dell’equilibrio della rappresentanza di genere nella politica, il comportamento delle donne elettrici e il ruolo delle donne nelle istituzioni – emerge un quadro complesso, arricchito da alcune testimonianze di vita, nel caso dell’intervista a Marisa Rodano, o di memoria con la recensione al libro Il giudice delle donne di Maria Rosa Cutrufelli, le quali arricchiscono lo scenario, ma non lo semplificano.

La prima riflessione attiene al dato storico: il riconoscimento del diritto di voto alle donne è certamente tardivo rispetto al dibattito politico dell’epoca, come emerge bene sia dalla vicenda anconetana che vede Lodovico Mortara schierato a favore del suffragio femminile, sia dai documenti sul dibattito politico che si è sviluppato subito prima dell’avvento del regime fascista. Basti pensare che nel 1919 anche il Partito popolare includeva, nel suo programma di fondazione, il “Voto femminile”.

Ma questo ritardo, dovuto alle note vicende della storia italiana, aiuta a comprendere l’importanza rivestita dal contesto concreto nella maturazione di un suffragio realmente universale. D’altra parte, il salto verso una concezione contemporanea della cittadinanza, di cui la rappresentanza politica costituisce un precipitato, impone di abbandonare una visione meramente astratta dei diritti, per collocare il cittadino nel contesto della vita reale, dove la persona, per godere di uno sviluppo pieno, necessita non solo di diritti civili e politici, ma anche di diritti sociali, nonché della considerazione di tutta una serie di elementi di fatto in grado di incidere sulla sua capacità di accesso ai diritti.

Ora, è proprio la maturazione di alcuni essenziali elementi di “contesto” che prepara il terreno del riconoscimento del diritto di voto alle donne. Sul piano giuridico, un peso deve essere dato certamente all’abolizione dell’autorizzazione maritale e all’acquisizione della piena capacità giuridica da parte delle donne, avvenuta nel 1919. Sul piano, invece delle vicende storiche, si è rivelato determinante il ruolo svolto dalle donne durante la resistenza. E’ vero che le donne assunsero un ruolo di rilievo anche durante la grande guerra, ma nella seconda guerra mondiale si verifica un fatto diverso: le donne non svolgono la loro funzione stando a casa, bensì entrando nella sfera pubblica. Ed questo ingresso nella vita pubblica che legittima l’accesso al voto non come una conquista o come una concessione, ma come il riconoscimento di un diritto. Il fascino delle testimonianze del 1946 è tutto in questa idea – che emerge dall’azione del comitato descritto da Marisa Rodano – di un diritto che non poteva non essere loro riconosciuto, perché le donne erano già uscite allo scoperto, avevano già varcato la soglia del mondo privato per entrare a pieno titolo in quello pubblico.

Sotto questo profilo, il riconoscimento del diritto di voto alle donne qualifica in modo diverso l’idea stessa di rappresentanza politica: è l’ingresso nella sfera pubblica che rende doveroso un pieno accesso alla rappresentanza politica delle donne, sia come rappresentanti, che come rappresentate. E ciò perché è solo il radicamento al contesto della vita reale che legittima la rappresentanza politica, innestandola sul rapporto di cittadinanza.

Se queste sono le basi di partenza, diviene essenziale verificare come si è sviluppato il percorso delle donne verso una cittadinanza piena, e dunque qual è il tasso di presenza delle donne nella politica, nel mondo delle istituzioni, nel mercato del lavoro. Quanto alla politica, i contributi di Pezzini, Sarlo e Zajczyk, e i dati a cura della redazione offrono un quadro in movimento, ma tutto sommato chiaro: il processo di riequilibrio della rappresentanza di genere avviato dal legislatore funziona e ha in pochi anni stravolto il quadro della rappresentanza femminile in Italia. Ciò che ancora è carente tuttavia è il dato della politica reale (ancora una volta, si presenta un problema di “contesto”): le donne scarseggiano a livello locale e nelle leadership di partito, indice di una presenza in politica ancora poco radicata e frutto di scelte promozionali.

Nel mondo del lavoro e delle istituzioni pubbliche non politiche su cui si sofferma Guarriello, invece, non si registra ancora la svolta positiva che è emersa nella sfera politica, il che è facilmente spiegabile data la difficoltà di realizzare, nel mercato del lavoro, legislazioni autenticamente promozionali. La legislazione italiana che promuove le pari opportunità nell’accesso al lavoro, privato e pubblico, è il linea con gli standard europei, come lo è la legislazione che tutela la genitorialità. Eppure vi sono ancora 20 punti percentuali che dividono il tasso di occupazione femminile da quello maschile.

Per spiegare questo ritardo – che costituisce un problema non per le donne ma per la dinamica economica dell’intero paese – occorre guardare, ancora una vota, al contesto, ovvero a quelle circostanze di fatto che costituiscono un ostacolo allo sviluppo dell’occupazione femminile, che vanno dalla carenza di servizi di sostegno alla genitorialità, ai differenziali salariali tra donne e uomini (anch’essi dati “di fatto” che si sviluppano nonostante i divieti di discriminazione, ma che hanno come effetto quello di influenzare le scelte di distribuzione dei carichi di cura all’interno della famiglia), al lento disgregarsi del c.d. welfare famigliare tradizionale, alle quali si è aggiunta, negli ultimi anni, la diffusione di percorsi di vita precari che certo non favoriscono l’accesso al mercato del lavoro delle donne, le quali assommano al rischio precarietà quello legato alle vicende della maternità.

Vi è da chiedersi se il recente incremento della presenza femminile nella sfera della rappresentanza politica possa contribuire all’elaborazione di proposte che favoriscano effettivamente un pieno accesso delle donne alla sfera pubblica, contribuendo all’eliminazione proprio di quelle circostanze di fatto. La questione va al cuore dell’intervento di Pezzini, che si chiede se dobbiamo considerare le quote come una misura temporanea, ovvero se l’equilibrio della rappresentanza di genere debba essere considerato una qualità indispensabile della rappresentanza stessa. Pezzini pone la questione in termini problematici, segnalando i rischi di una modificazione permanente della rappresentanza, quale sembra emergere dalla riforma costituzionale nel cantiere del Parlamento.

Alle perplessità espresse da Pezzini si potrebbe aggiungere un’ulteriore considerazione. Una tale visione, che si spinge oltre la promozione di misure volte a favorire un riequilibrio della rappresentanza di genere ma considera l’equilibrio di genere come un requisito consustanziale alla rappresentanza, finisce per svilire il contributo delle donne alla politica. Considerare l’equilibrio della rappresentanza di genere una qualità indispensabile della rappresentanza stessa suggerisce, nella sostanza, l’idea che le donne, una volta acquisiti ruoli di rappresentanza politica, agiscano come un gruppo di interesse, privilegiando il punto di vista femminile. Vista così, la rappresentanza acquisirebbe carattere marcatamente privatistico, laddove è proprio il rilievo pubblicistico della presenza femminile nella vita politica del paese a fungere da trasformatore permanente della qualità della rappresentanza.

Leggi lo speciale di inGenere per il settantesimo anniversario del voto alle donne