La partenza di Lidia Menapace per il suo ultimo viaggio è stata annunciata in anticipo per via del COVID, con quel rumore delle conferme e delle smentite, che credo l’abbia un po’ infastidita. Ora se n’è andata davvero e possiamo salutarla. Ciao per sempre, Lidia, sorella partigiana. Staffetta partigiana lo era stata in Valsesia, in Val d’Ossola e sul Lago Maggiore, dove aveva svolto attività di informazioni, soccorso ed evasione a favore dei detenuti politici. Fu congedata nel ’45 col brevetto di “partigiana combattente, col grado di sottotenente” dal Ministero della Difesa, come ci teneva a sottolineare con la sua bella ironia sorridente, ma anche con una punta di orgoglio, per aver «partecipato alla Resistenza contro l’occupazione nazifascista, all’unica guerra della storia italiana che è stata di popolo». 

Poi pacifista e femminista per la vita. Pacifista “né indifesa né in divisa”. Da femminista dichiarava di appartenere «a un femminismo che definirei della sorellanza, piuttosto che della madre. Perché parlare di simbolico della sorellanza rimanda a un ambito egualitario». Da docente e saggista si è occupata di diverse cose, comprese linguistica e letteratura, ma qui vorrei ricordare che nei primi anni ’90 raccolse in “Economia politica della differenza” l’elaborazione del gruppo “Scienza della vita quotidiana” dell’UDI, da lei stessa coordinato, precorritore di parole e temi divenuti in seguito di uso corrente nei luoghi femministi, sul «grande valore del lavoro di riproduzione svolto dalle donne, necessario alla specie ma di nessun riconoscimento, né economico né politico». 

Da attivista politica fu tra i fondatori del gruppo de “il Manifesto” e poi senatrice della Repubblica, eletta nel 2006 nelle liste di Rifondazione Comunista.   Nell’ultima parte della sua vita, la “sua” Resistenza amava raccontarla soprattutto ai ragazzi e alle ragazze. A cui spiegava, fra le tante cose utili da sapere, che «una questione non risolta nella Resistenza e nella sua storiografia è quella del riconoscimento del ruolo delle donne». 

A postilla della sua autobiografia “Canta il merlo sul frumento”, pubblicata da Manni nel 2015, scrisse poi: «Aver ripercorso senza rigore, ma addirittura a capriccio il tratto della mia vita fino a qui, a me ha fatto pensare quanto sia stata fortunata a nascere quando e dove nacqui, sì da poter partecipare nel corso di una sola vita alla Resistenza, al Sessantotto, alla crisi del capitalismo».