Le donne nella resistenza cuneese
Le donne nella resistenza cuneese

Da  LetterateMagazine n 161 settimanale in line della Società Italiana delle Letterate    “Vieni fuori di lì che poi ti devi sposare”. Con questa frase sulle labbra molti padri afferravano per un braccio le figlie e le tiravano fuori, d’autorità, dalle sfilate che il 1° maggio del ’45, ancor più del 25 aprile, avevano messo accanto, sulle nostre strade, partigiani e partigiane finalmente scesi dalle montagne. Altre furono pregate dai comandanti stesse di farsi da parte: non conveniva loro e neppure, forse, alla brigata mostrare quelle giovani donne accanto ai ragazzi, magari con uno sten in mano.

Lo raccontano a Donatella Alfonso alcune delle partigiane liguri che, in questi ultimi anni, è andata a intervistare per raccontare la loro epopea nel libro, corredato di foto e anche di un video, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945. La parola ridata alle donne. Appunto, ridare la parola alle donne e capire quante di loro furono incoraggiate a tornare velocemente nei ranghi appena finita la guerra. Il risultato fu che – in tutta Italia e non certo solo in Liguria – molte non si presentarono neppure per avere il riconoscimento ufficiale di partigiana, altre addirittura lo cedettero a un fratello o al fidanzato perché quell’attestato permetteva di trovare un lavoro.

Oggi le loro parole ci lasciano incredule e dispiaciute. Tina Tomanelli, che al tempo era un’impiegata e, tra le varie attività svolte, nascose addirittura un tedesco disertore che voleva unirsi alla Resistenza, racconta che non lo aveva mai detto prima. In effetti quanti glielo avevano chiesto? Lo stesso stupore lo mostrano, nel magnifico libro della Nobel Svetlana Aleksievic La guerra non ha un volto di donna, le volontarie sul fronte russo nella seconda guerra mondiale: nessuno le aveva mai interrogate sulle loro imprese in guerra in cui furono staffette, artigliere, infermiere… Stesso imbarazzo, stessi silenzi reticenti delle partigiane italiane di fronte alle domanda della giornalista. Con alcune eccezioni. Come la cecchina russa racconta senza esitazioni come tirava bene e quanti tedeschi uccise, Vera Del Bene, spezzina, racconta che salì in montagna ben decisa da subito a sparare come gli uomini. E così fu. Un’esperienza che l’ha segnata per tutta la vita, una vita in cui, dice, “ho sempre gestito da sola il mio cervello e il mio corpo”. Ma sparare, ammette, “non è facile, perché i morti ti guardano”.

Le combattenti risultano in tutto 35 mila, 20 mila sono le patriote con funzioni di supporto e circa 70 mila le donne inquadrate nei GDD i Gruppi di Difesa della donna avviati nel 1943 a Milano da alcune donne presenti nel Cln. Pur essendo, come certifica l’Anpi, cifre bugiarde per difetto, sono impressionanti e mostrano quello che molti studiosi e studiose hanno finalmente scritto in questi anni: e cioè che senza la rete di migliaia di donne, capillare e tenace, senza il loro lavoro di cura, logistica e comunicazione in città e montagna, la Resistenza non sarebbe stata possibile. Le staffette, come l’Agnese di Renata Viganò, sono state indispensabili ed è ormai accertato quanto fosse importante il loro portare ordini, informazioni, armi, medicine, notizie. Ma le cifre parlano anche di 1070 donne cadute in combattimento. Di 2812 fucilate o impiccate. Di 4653 arrestate e spesso torturate e 2650 deportate nei lager.

Mirella Alloisio, che ha poi fatto la giornalista a “Noi donne” e raccolto già nel ’57 le prime testimonianze di partigiane, a 17 anni, a Genova era la segretaria del Cln e custodiva, da sola, il segreto dei veri nomi di tutti i membri del gruppo dirigente. Oggi dice senza mezzi termini che il “ruolo delle donne è sempre stato sottovalutato per una forma di maschilismo diffuso anche nelle brigate partigiane”. E le poche che osarono dirlo allora non furono certo ben viste perché si rovinava, in quel modo, l’immagine a tutto tondo delle brigate partigiane. Vanda Bianchi, staffetta tra Sarzana e la Val di Magra racconta a Donatella che se l’avessero mandata alla scuola di partito non si sarebbe sposata. “Perché un uomo non lo capisce che una moglie possa far politica… Così quando sono rimasta vedova ho ripreso il mio posto”, e ha presieduto la sezione Anpi fino a due anni fa, quando se ne è andata.

Il dopoguerra è stato duro per tutti, civili e anche molti partigiani, che furono esclusi dalla vita politica per aver voluto conservare intatta la propria utopia di una società più giusta. E le nostre madri partigiane, a lungo trascurate o misconosciute, hanno finalmente avuto i riconoscimenti che meritano e ascoltare le loro storie ha un senso profondo. Anche nell’antologia Storie della Resistenza, curata da Domenico Gallo e Italo Poma, è stata inserita una sezione che raccoglie i racconti scritti da donne che hanno partecipato alla resistenza come la toscana Maria Luigia Guaita o la piemontese Marisa Ombra, autrice nel 2009 di una autobiografia intitolata La bella politica (Edizioni Seb).

Donatella Alfonso, Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945. La parola ridata alle donne, De Ferrari editore, 2015