Di cosa parliamo e di chi parliamo quando pronunciamo le parole «donne» e «animali» nel contesto di una riflessione politica?Se per quanto riguarda le donne, nessuno dubita del fatto che si tratti di un «chi», per gli animali la domanda stessa genera disagio: pochi sosterrebbero che gli animali sono cose, e che di essi ci si debba domandare «cosa» sono; ma pochi sono anche coloro che ne accettano l’ammissione nella sfera del «chi». Nella {{cultura occidentale moderna,}} ancora profondamente cartesiana nel separare la materia dallo spirito, ma nello stesso tempo – e non a caso – restìa ad accettare l’idea che i non umani siano delle mere «cose», gli animali occupano dunque una zona bastarda dell’essere: né cose, né persone.

Se si passa poi a considerare{{ i contenuti del discorso politico sulle donne e di quello sugli animali}}, entrambi – ma più marcatamente quest’ultimo – devono fronteggiare la forte tendenza alla naturalizzazione che ancora pervade la nostra società anche nei suoi contesti più «radicali».

L’idea che le donne non siano semplicemente un aggregato di esseri umani accomunati da genitali e fattezze analoghi, ma una classe, inserita in specifiche relazioni conflittuali con altre classi e coinvolta dunque in una lotta di classe, idea affermata e sviluppata dal pensiero femminista (seppure in molte e diverse declinazioni), fatica a farsi strada nella coscienza comune.

Per quanto riguarda gli animali, essi sono comunemente compresi come esseri «naturali»: concetto privo di scientificità, il cui valore è unicamente retorico, volto ad evocare l’idea di una necessità (che alternativamente veste i panni della «biologia», dell’«istinto», dell’«evoluzione») alla quale gli animali sarebbero ineluttabilmente legati e che li priverebbe delle gioie dello sviluppo culturale e sociale, e delle virtù ad esso associate. Si parla degli animali come di un insieme omogeneo – le specie «non umane» contrapposte alla specie umana – senza esplorare il senso politico che comportano i nostri rapporti con alcune specie.

Se si vuol prendere sul serio l’idea di una {{filosofia politica animalista}}, è necessario in primo luogo riconoscere che in questo contesto il concetto «animali» costituisce, come quello di «donne», una classe, e si determina quindi non attraverso descrizioni scientifiche (biologiche, genetiche, etologiche…) ma attraverso la collocazione di certi individui in determinati spazi politico-sociali umani che li identificano come «animali».

Concretamente, {{quali sono questi spazi? }} Una lista non esaustiva che mira a mettere in luce qualche aspetto filosoficamente e politicamente pregnante può essere la seguente:

– lo {{spazio dell’appropriabilità}}: l’«animale» è quell’essere che può diventare proprietà di qualcuno (e in alcuni casi, deve diventarlo, pena l’impossibilità di esistere tout court);

– lo spazio della{{ negazione della biografia}}: l’«animale» è quell’essere che non ha diritto né a un’individualità né a una storia, ma è consegnato all’eterno presente della sua riduzione a materia prima attraverso il suo corpo e le sue funzioni riproduttive;

– lo spazio della {{mangiabilità}}: l’«animale» è quell’essere che, semplicemente, può essere mangiato; correlativamente, è quell’essere la cui vita, in virtù della sua commestibilità, può essere stroncata in modo violento senza che a tale evento venga associato un significato violento.

(Di questa «generazione» dell’«animale» attraverso l{{‘economia della sua sottomissione}} si può ovviamente cogliere l’intreccio con altre forme di oppressione – quella delle donne in primis, ma anche quella degli schiavi o, perché no, quella dei folli – senza per questo cedere alla tentazione semplicistica di rintracciare un unico meccanismo all’opera, se non addirittura di eleggere il dominio sugli animali a matrice e fondamento di ogni forma di dominio, annullando ogni distinzione tecnica, storica, geografica.)

Eppure, gli animali – nel senso sopra specificato – resistono. La resistenza animale all’annientamento non consiste tanto, o non solo, nelle concrete ribellioni, fughe, o morti per inedia, di cui sono protagonisti alcuni degli animali a noi sottomessi. Gli animali resistono anche, o soprattutto, nella loro intatta ed insistente capacità di ispirare in noi – in una società che ci ha alienati da loro al massimo grado – interesse, sollecitudine nei loro confronti, desiderio di creare spazi di condivisione. Questi animali ci accompagnano dagli albori della nostra storia in modi e forme che non si limitano all’annullamento dell’animale in nome di una cieca «volontà di dominio» umana, ma racchiudono anche un senso di prossimità profondo nel comune essere al mondo, nel respirare, percepire, tessere legami affettivi con i propri simili; nell’essere infine consegnati ad un comune destino di caducità. Animali e umani formano insieme una comunità multispecifica.

Inoltre, a quegli umani che sono oppressi da altri umani, gli animali ispirano solidarietà sulla base di comuni esperienze di sofferenza e costrizione (nel caso delle donne, ad esempio, la riduzione del Sé al proprio corpo organico operata dalla società, la denigrazione ontologica, la manipolazione scientifica).

Gli animali, in definitiva, contano: per loro stessi, ma anche per noi. La grande sfida intrapresa dalla filosofia politica animalista consiste nella trasformazione di questa rilevanza degli animali da percezione personale a tema di discussione collettiva. Torniamo così al ponte che lega strettamente la questione delle donne a quella degli animali: il femminismo ha mostrato la rilevanza politica di sfere «private» come la sessualità e gli affetti familiari, l’animalismo sarà capace di seguirne l’esempio, politicizzando in modo chiaro l’ambivalente prossimità (utilitaria ed affettiva) che ci lega ai nostri concittadini animali?

{immagine da radiovostok.com}