Articolo di Claudia Bruno

—  Il 12 giugno, Erika, ventotto anni, viene uccisa a coltellate a Biella dal suo compagno Dimitri. 29 giugno, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump twitta contro la giornalista Mika Brzezinski della tv via cavo Msnbc definendola “una pazza con basso quoziente intellettivo”. 3 luglio, l’Erasmus University di Rotterdam diffonde uno studio che sostiene che le donne sono meno intelligenti degli uomini. 10 ottobre, scoppia il caso su Harvey Weinstein accusato di decine di molestie sessuali. 8 marzo, in tutto il mondo le donne manifestano a sostegno della campagna #MeToo. 30 aprile, l’Accademia di Svezia, al centro dello scandalo Arnault, annuncia che il Nobel per la letteratura del 2018 rischia di saltare.

Se l’intolleranza si muove online è in corrispondenza di notizie come queste che gli insulti si scatenano. La rete dell’odio, così la chiama l’Osservatorio Vox, fondato dalla giornalista Silvia Brena e da Marilisa D’Amico, ordinaria di diritto costituzionale, che per il terzo anno consecutivo ne ha tracciato la geografia nel nostro paese.

È sui social che il virus della cattiveria si propaga, a ritmo dei mi piace e condividi che hanno già reso l’odio un sentimento globale. Non è un caso se l’edizione 2018 dello Zingarelli ha incluso tra i nuovi termini d’uso anche quello di hater. E gli odiatori (e le odiatrici) del web danno il peggio di sé quando chi legge è una donna.

Uccellini cattivi. Come nelle precedenti edizioni, l’osservatorio ha scelto Twitter come canale d’elezione, nonostante non sia il social più utilizzato dagli utenti, per il suo carattere virale e geolocalizzato: “la possibilità di re-twittare dà l’idea di una comunità virtuale continuamente in relazione e l’hashtag offre una buona sintesi del sentimento provato dall’utente” motiva l’osservatorio che ha gestito il lavoro in più fasi. La prima ha riguardato l’identificazione dei diritti e del loro mancato rispetto, ed è stata seguita dal dipartimento di Diritto Pubblico italiano e sovranazionale dell’Università degli Studi di Milano. La seconda fase è stata rivolta all’individuazione delle parole più utilizzate dagli utenti per esprimere odio, e a questo hanno lavorato i ricercatori del dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia, dell’Università Sapienza di Roma.

mappa dell’odio verso le donne

Geografia dell’odio. Sulla scia della Hate Map della Humboldt State University, una terza fase della ricerca è consistita nella realizzazione della mappatura dei tweet, resa possibile grazie a un software progettato dal Dipartimento di Informatica dell’Università di Bari, “una piattaforma di Social Network Analytics & Sentiment Analysis, che utilizza algoritmi di intelligenza artificiale per comprendere la semantica del testo e individuare ed estrarre i contenuti richiesti” ha spiegato l’osservatorio. I dati raccolti sono stati poi analizzati ed elaborati dal team di psicologi della Sapienza e dai sociologi del team di ItsTime, Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, centro di ricerca che fa capo al Dipartimento di Sociologia dell’università Cattolica di Milano.

Chi odia preferisce le donne. Le donne sono il bersaglio preferito per la pubblica gogna, una tendenza rimasta pressoché invariata dal 2016, segno che l’odio contro le donne ha radici profonde e trasversali. Sul totale dei tweet intolleranti analizzati dall’osservatorio tra maggio e novembre 2017 e marzo e maggio 2018 (in tutto 6.544.637 di tweet), le donne (e qui si intende per il fatto di essere donne, essendo le donne ovviamente presenti anche nelle altre categorie analizzate) raccolgono infatti il 60% degli insulti, seguite da migranti (13,5%), islamici (11,8%), disabili (8,3%), omosessuali (4,3%), ebrei (2,8%). Gli hater misogini si scatenano al nord, calano a Roma, si concentrano in Sicilia e a Napoli, si legge nella mappa termografica che permette di visualizzare dove l’odio “si accende”. Sono Milano, Bologna, Torino, Firenze e Palermo le città in cui gli utenti danno più sfogo alla misoginia online. Dati che confermano una tendenza: i social network sono diventati il veicolo principale per le violenze di tipo psicologico, la forma di violenza più diffusa tra le donne con un ruolo pubblico, secondo un rapporto diffuso dall’Unione interparlamentare.

Offese, insulti, turpiloqui. Le parole più ricorrenti usate per offendere le donne hanno sempre a che fare con un corpo degenerato o degradato nelle sue funzioni sessuali. Del resto il bersaglio dell’offesa online – spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista tra gli autori dell’osservatorio – è quasi sempre il corpo, che queste siano rivolte al genere, all’orientamento sessuale, al paese di provenienza, alla fede o all’etnia. Nel regno della smaterializzazione dei corpi, il corpo si aggiudica allora questo primato “negativo”, e viene chiamato in causa solo per essere messo a processo da chi invece il proprio corpo ha tutto l’interesse di nasconderlo. Alla base delle comunità di hater, ricorda lo stesso osservatorio, c’è proprio l’anonimato: la cattiveria online si nutre dell’assenza di chi insulta e, verrebbe da aggiungere, non tiene abbastanza conto della presenza di chi si trova dall’altra parte. La cronaca nera sui casi di cyberbullismo insegna, e c’è un dato demografico che di questi tempi non andrebbe dimenticato: a livello globale il suicidio è diventato la prima causa di morte per le adolescenti tra i 15 e i 19 anni.

mappa dell’intolleranza – i numeri tra parentesi si riferiscono a rilevazioni del2016

In Italia si odia sempre di più. Le nuove mappe pubblicate dall’osservatorio registrano un balzo di 4 punti percentuali di tweet intolleranti tra il 2017 e il 2018 (dal 32,45 al 36,9%). Se diminuisce l’intolleranza verso le persone omosessuali – dai 35.000 tweet negativi registrati nel 2016, si è passati ai 22.000 nel periodo analizzato tra il 2017 e il 2018, conseguenza diretta, secondo le autrici e gli autori del rapporto dell’approvazione della legge sulle unioni civili –  esplodono invece xenofobia, islamofobia e antisemitismo. “Più di 1 italiano su 3 twitta il suo odio contro migranti, ebrei e musulmani”, spiega Silvia Brena. I tweet contro le persone migranti sono passati dai 38.000 del 2016 ai 73.390 tra il 2017 e il 2018, con picchi di affollamento registrati non in corrispondenza degli arrivi sulle coste ma nei periodi successivi agli sbarchi. “I dati che abbiamo raccolto su antisemitismo e islamofobia confermano in questo senso una tendenza in atto, verso la ‘globalizzazione’ della rabbia e dell’odio” continua Brena “ma dalla rilevazione emerge un altro aspetto importantissimo. I tweet intolleranti diminuiscono, dove è più alta la concentrazione di migranti, dimostrando quindi una correlazione inversa tra presenza sul territorio e insorgere di fenomeni di odio: come a dire, conoscersi promuove l’integrazione”. Una correlazione che conferma la discrepanza fra dato reale e dato percepito, fa notare Barbara Lucini, sociologa della Cattolica: “nella giornata del 29 aprile il Viminale ha aggiornato i dati relativi agli sbarchi, che risultano diminuiti del 75,5% per lo stesso periodo del 2017. Quello stesso giorno però rappresenta un picco di aumento di Tweet contro gli stranieri”.

Ma è un pugno di hater a manovrare i sentimenti. L’indagine dell’osservatorio in questa terza edizione mette in luce una tendenza significativa: all’aumento dei tweet corrisponde una diminuzione dei profili Twitter. Significa che è in atto una “estremizzazione dell’odio”: sono ristrette cerchie di utenti a manipolare gli animi della massa di naviganti. Attraverso la possibilità di condivisione potenzialmente infinita, un manipolo di influencer è in grado di ottenere un effetto esponenziale.

Il futuro che ci aspetta. La violenza online, conferma l’osservatorio, corrisponde a conseguenze nella vita reale. Inoltre, il fatto che i picchi di affollamento si registrino in particolari città e in corrispondenza di specifici eventi locali, nazionali e internazionali rende tutta la responsabilità che i media hanno nel diffondere contenuti e atteggiamenti. “La nostra mappa permette di individuare le zone in cui l’hate speech è maggiormente twittato. Questo ci consente di attivare campagne preventive sia attraverso l’elaborazione di materiali didattici e formativi sia attraverso interventi nelle scuole e incontri allargati con le realtà territoriali” spiega l’osservatorio, che proprio dalle scuole propone di ripartire per trovare le parole all’altezza del futuro che ci aspetta.