mafia«La mafia è nata in Sicilia, non vi è dubbio. Ma Siciliani sono anche coloro che l’hanno combattuta. La lunga e tragica scia di sangue versata da magistrati, uomini delle istituzioni, giornalisti e sindacalisti è lì a dimostrarlo. In questo contesto di resistenza civile e morale si inserisce il ruolo delle donne. Negli anni ’80 nasce il primo Movimento delle Donne contro la mafia. Da allora, confutando gli stereotipi di una Sicilia omertosa e connivente, inizia un importante cammino che porterà nuove generazioni di donne a schierarsi apertamente contro la violenza mafiosa.»

Con queste parole il Laboratorio Donne e mafie (Università di Catania – Dipartimento di Scienze Umanistiche, Fondazione Giuseppe Fava, UDI, CGIL), invitano all’incontroDonne contro le mafie.

Una storia collettiva di legalità e giustizia” che si terrà il 10 marzo, ore 16,30, presso l’Auditorium “Giancarlo De Carlo”, Monastero dei Benedettini, presenti Giovanna Crivelli, dell’Unione Donne in Italia di Catania, e Adriana Laudani «per diversi anni parlamentare regionale, successivamente difensore di parte civile nel processo Fava e nel maxi processo di Palermo.» 

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Anni ’80  –  La nascita del movimento delle donne siciliane contro la mafia

Il testo che segue è tratto dal discorso pronunciato a Osaka nel 1992 da Giovanna Terranova, vedova del magistrato Cesare Terranova, ucciso dalla mafia il 25 settembre 1979.[1]

Voglio innanzitutto  ringraziare la Federazione giapponese delle associazioni di avvocati per questo gentile invito che ha offerto a me e alla signora Elvira Rosa mia consocia, l’opportunità di venire a conoscere un così interessante e meraviglioso Paese e portarvi un testimonianza vissuta e sofferta della nostra difficile realtà. So che anche il vostro Paese soffre di fenomeni di criminalità organizzata – come la “Yakuza” – e, pertanto, questo sarà per noi un incontro denso di interesse e di significato perché avremo modo di scambiare idee ed opinioni e conoscere le nostre esperienze.

In Sicilia, come tutti voi saprete, il problema della mafia è secolare. Da anni si “convive” con essa, intendendo dire che da anni si è subito, accettato, tollerato questo fenomeno, come sono state subite e tollerate la povertà, la miseria, la siccità. Oppure il fenomeno è stato visto come un fatto folkloristico o come un’associazione protettrice con un suo “codice d’onore”, rispettosa di certe regole, garante di una sicura stabilità, sostituendosi ai vuoti e alle carenze delle istituzioni e dello Stato.

(…) Ancora qualche anno fa, autorevoli cittadini palermitani negavano con forza l’esistenza della mafia, o la consideravano “buona e eccellente” (…)

Pochi erano invece quelli che, come mio marito, già negli anni ’60, avevano una perfetta e lucida cognizione del pericolo che la mafia rappresentava. (…)

Lo specifico della criminalità mafiosa sta proprio in questi due aspetti: quello culturale perché diviene mentalità, comportamento: e quello politico per le sue collusioni coi partiti e con il potere, per le sue infiltrazioni nei “Palazzi”, nelle istituzioni, nelle amministrazioni pubbliche. (…)

La mafia impadronendosi del traffico della droga diventa una holding internazionale, cambia il suo comportamento nei confronti delle istituzioni. Si rende conto che l’avversario da battere non è la sovrana indifferenza dello Stato, ma l’attivismo di pochi uomini che, di volta in volta, vengono a trovarsi più  esposti in trincea.

(In questi anni) a Palermo si è assistito ad una vera e propria decapitazione delle istituzioni. Da questa incredibile ondata di violenza vengono colpiti non soltanto i familiari delle vittime, ma tutta la società civile che ne esce depauperata e mortificata, perché tutti i cittadini vengono offesi nella dignità sociale, perché la morte di questi uomini li ha privati della parte migliore, più coraggiosa e più vitale della collettività.Perché questi uomini hanno pagato un così caro prezzo? Sono caduti per noi, la loro vita e la loro morte stanno ad indicarci il significato di scelte profonde ed essenziali, mirate al riscatto sociale di una terra troppo a lungo ferita ed umiliata.

Uno dei primi anelli della catena di “delitti eccellenti” è proprio quello di mio marito. Aveva lavorato all’Ufficio Istruzione di Palermo dal 1958 al 1972, quasi elusivamente a processi di mafia, e per questo era divenuto per tutti il giudice simbolo dell’antimafia. Nel 1972 fu eletto deputato al Parlamento nazionale come indipendente di sinistra.

Quando, esaurito il suo impegno parlamentare dovette fare una scelta, non ebbe esitazioni: volle tornare a Palazzo di giustizia, certamente consapevole delle difficoltà e del rischio che questa decisione comportava.Per il suo duplice ruolo di deputato, membro della Commissione antimafia nazionale, e di magistrato di prima linea, rappresentava per l’associazione mafiosa una grave minaccia, un nemico accorto ed implacabile. La realtà e la concretezza di questo rischio ebbero tragica riprova il 25 settembre 1979.

E se questa guerra violenta e sanguinaria suscita orrore, indignazione e smarrimento in ogni cittadino è facile immaginare quanto ognuno di questi delitti abbia lasciato il segno tra i familiari. E’ impossibile, per chi non l’ha provato, capire lo strazio che si prova nel vedere la persona cara travolta da tanta violenza che ne offende anche la dignità fisica; al dolore si aggiunge anche l’orrore per il tipo di morte.Ciò provoca rabbia,  ribellione, incapacità a qualsiasi forma di rassegnazione; pertanto tragedie simili o distruggono la vita o danno una forza fino a quel momento ignorata.

Una forza che scaturisce, in un primo momento, dall’emotività, senza dubbio: l’aver vissuto accanto ad un uomo che in determinati valori ha creduto e per essi è morto, mi ha certamente sollecitata a fare tesoro della ricchezza spirituale da Lui ereditata: l’onestà, la dignità, il coraggio, il senso del dovere.

Tutto questo mi ha spinto ad uscire dal privato, costringendomi a vincere, a superare quelli che sono stati gli istintivi sentimenti di ritrosia, di pudore di una donna che non ha alle spalle alcuna militanza politica, alcuna esperienza di impegno sociale, forte solo del fatto d’aver vissuto al fianco di uomo di valore.

Il passaggio dal privato al sociale, quando si ha la forza di farlo, è una scelta profondamente sofferta, dettata dalla consapevolezza che via via si va acquisendo che la tragedia di cui siamo stati vittima,  il lutto che ci ha colpito, non sono  più fatti soltanto personali, ma il nostro dolore, il nostro lutto appartengono alla collettività. Ecco perché ho colto l’occasione di incontrarmi con gruppi di donne che, come me, sentivano esigenza di attivarsi nella mobilitazione delle coscienze, nella diffusione di una cultura antimafia. L’impegno delle donne siciliane contro la mafia nasce introno al 1980 con il lancio di una petizione popolare indirizzata al Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Nell’aprile del 1981 una delegazione di donne composta da alcune di noi firmatarie si reca a Roma per consegnare al presidente la petizione con oltre 30.000 firme raccolte. (…). Nasce così, la prima assoluta in Italia, l’Associazione donne siciliane contro la mafia. Ci siamo ritrovate tra noi, donne diverse: giovani, adulte, lavoratrici, casalinghe, sindacaliste e studentesse; diverse per matrice culturale e ideologica, per percorsi politici, per esperienze. Ma tutte unite in questa ribellione, nell’opposizione alla cultura del dominio, dell’oppressione. Spesso mi è stato chiesto come mai proprio le donne in Sicilia sono state le prime a pensare di intraprendere questa lotta. Molti hanno della donna meridionale l’immagine stereotipata di una figura avvolta in scialli neri, chiusa al mondo e distante dalla realtà. Ma come è naturale in un mondo in continua evoluzione, la donna siciliana tende a diventare sempre più protagonista, ad assumere un ruolo nella società.

Infatti, dobbiamo ricordare che ci sono tanti esempi di donne, sia appartenenti alla mafia, sia vittime di queste, le quali in prima persona hanno rivendicato giustizia, armate di una forza che distrugge secoli di tradizionale silenzio, spinte da un senso di ribellione contro chi aveva profanato i loro sentimenti più veri e più profondi.

 La nostra Associazione comincia ad avere contatti molto frequenti con le scuole, coi comitati di quartiere, con i provveditorati.

Quando, nel 1982, a Palermo si celebra il più grande processo di mafia (Spatola-Inzerillo), le donne decidono di costituirsi parte civile: è la prima volta che in Sicilia succede un fatto del genere! La richiesta viene respinta per motivi giuridici, ma ll’iniziativa si riconosce la capacità di rompere le regole dell’omertà e della paura.

(…) La società civile palermitana è cresciuta, qualcosa sta cambiando, c’è più partecipazione, minore indifferenza. Palermo questa volta ha urlato a gran voce il suo sdegno, ha pianto lacrime vere; tutto fa pensare che in questa lotta non siamo, né saremo pochi. Con fatica , quindi, ricominciamo a sperare ed a costruire.

[1] In:  Giovanna Terranova, Una cento, mille donne contro la mafia, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 2013