Il Dipartimento di Scienze Umanistiche  in collaborazione con “Libera Associazioni”, “Fondazione Fava”, con  “UDI CATANIA” e  “CGIL Catania”  venerdì 16 marzo  alle ore 16 all’Auditorium “Giancarlo De Carlo” Monastero dei Benedettini organizza un incontro partendo dal libro di Isaia Sales  e Simona Melorio Le mafie nell’economia globale: fra la legge dello Stato e le leggi del mercato edito da Guida editori

Nell’introduzionedel libro si può leggere:

Se gli effetti sociali e politici del crimine organizzato sono riconosciuti e studiati, quelli economici lo sono di gran lunga di meno. ( Anna Maria Tarantola, audizione commissione antimafia, 6 giugno 2012)

 Il rapporto tra mafie ed economa è antico, si può dire che sia un tratto identitario dei fenomeni criminali di tipo mafioso. Non è solo nella contemporaneità che i criminali mafiosi sono presenti nell’economia legale o hanno una presenza ragguardevole sui mercati. Le mafie che oggi si occupano di economia e vi intervengono massicciamente rappresentano solo l’esplosione di un interesse che è consustanziale all’essere mafioso.

Le mafie, infatti, hanno avuto sempre a che fare, nel corso della loro lunga storia, con le attività economiche. Non esiste mafia, non si dà mafia, se non in legame con il denaro e con il mercato, con la ricchezza altrui.  (…)

 Il metodo mafioso è innanzitutto uno strumento di capitalizzazione della violenza, cioè un modo di procacciarsi risorse economiche con l’uso della violenza. Più che industria del crimine, come la definì Leopoldo Franchetti già nel 1876, la mafia è crimine che si fa industria e attività economica. La violenza, insomma, con i mafiosi entra a pieno titolo nelle relazioni di mercato e si fa beffa delle sue presunte regole “morali”, che cioè il mercato è uguale a democrazia, che il mercato è contrapposto a illegalità, che la criminalità è distruttrice di ricchezza, secondo i canoni classici del capitalismo moderno dettate da Adam Smith e John Stuart Mill. È l’ipocrisia sulle regole del mercato che ha tenuto nascosto che anche nelle economie produttive le forze violente non sono respinte di per sé ai margini, non c’è contrapposizione tra mercato e violenza, tra economia legale e illegale. L’economia criminale è contro le leggi degli Stati ma non contro quelle dei mercati.

L’economia è molto più aperta della rigida regolazione della legge. Si può fare economia anche fuori o addirittura contro la legge: le mafie ne sono la più autentica e duratura dimostrazione.

Ma se non è cambiato lo storico interesse delle mafie per la ricchezza, sono cambiati oggi l’intensità, le modalità e le caratteristiche della presenza mafiosa nell’economia. Mai nella storia bisecolare delle mafie italiane (cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta) esse hanno goduto di una ricchezza pari a quella odierna  Mai nella storia plurisecolare della yakuza giapponese o delle triadi cinesi c’è stata tanta circolazione di ricchezza nelle mani di criminali. Così come mai nella  storia russa si sono prodotti tanti plurimiliardari di provenienza criminale. E il peso nell’economia del Messico o della Colombia o del Guatemala o del Perù dei narco-criminali è imparagonabile a qualsiasi altra epoca storica.

La novità non è il ruolo economico delle mafie, dunque, ma l’entità di tale ruolo.

A seguito del traffico delle droghe e della globalizzazione dei mercati, c’è stata un’esplosione, più che una evoluzione, del rapporto tra mafie ed economia. Castells nel libro Volgere di millennio ricorda che “La criminalità globale, la cooperazione in rete di potenti organizzazioni criminali e dei loro associati per il raggiungimento di obiettivi comuni su tutto il territorio mondiale, è un fenomeno nuovo che influenza enormemente l’economia, la politica, la sicurezza e, più in generale, la società a livello nazionale e internazionale”. Eppure il “fenomeno è quasi ignorato dagli scienziati sociali, quando si tratta di capire il funzionamento reale di società ed economie”. Si fa fatica a prendere atto, cioè, che il crimine organizzato è diventato “un attore fondamentale dell’economia e nella società nell’Età dell’informazione”. (Castells, pag. 203) Bisogna prendere atto che organizzazioni criminali nate nei secoli passati,  radicatesi in determinati contesti che molti avevano definiti arretrati o avevano legato a culture superate, non sono scomparse nelle nuove reti globali. Anzi “l’interconnessione globale in rete consente alle organizzazioni criminali tradizionali di sopravvivere e prosperare sfuggendo ai controlli degli stati nazionali” (Castells, pag. 191) e superando i limiti dei contesti locali. La globalizzazione ha dimostrato definitivamente che le mafie non sono un residuo di società tradizionali destinate a scomparire con l’inevitabile modernizzazione delle società dove si erano all’inizio radicate. Eppure, nonostante le mafie abbiano raggiunto un ruolo più che ragguardevole nell’economia contemporanea, tale questione stenta a diventare allarme generale degli organismi preposti e a influenzare come meriterebbe gli studi e le ricerche degli economisti. A impedirlo ci sono due convincimenti, quasi dei dogmi accademici.

 Il primo riguarda il credo  della dottrina liberista sulla capacità del mercato, lasciato a se stesso, di autoregolarsi. Per cui non ci sarebbe da allarmarsi: il mercato aggiusterà tutto, anche questa presenza incongrua della criminalità organizzata. Questa sembra essere più espressione di teologia che di economia, come vedremo più avanti. Il secondo convincimento (che ha strette connessioni con il primo) è che il crimine rappresenta un elemento del tutto irrilevante nelle dinamiche strutturali dell’economia. La sottovalutazione del crimine è, dunque, nell’epoca contemporanea, un prodotto della dottrina liberista e del suo dominio negli orientamenti delle élite nazionali e internazionali.

  Principalmente  tre fattori hanno portato all’ “esplosione” odierna della questione criminale.

  • Il monopolio del traffico di droghe, un’attività economica che non ha pari per profitti con nessun’altra merce legale e illegale. Aver lasciato nelle mani dei mafiosi la gestione di un traffico del genere a causa del proibizionismo si è rivelato, al di là di qualsiasi altra considerazione, un’opportunità straordinaria di crescita economica per le mafie, ben superiore di quella offerta dall’alcool negli Usa alla mafia statunitense. Il traffico delle droghe ha radicalmente modificato la disponibilità economica dei criminali come nessun altro affare nella storia della criminalità e, dunque, è stata questa circostanza a determinare la fase attuale del potere delle mafie in Italia e nel mondo. Sarebbe assurdo non tenerne conto negli studi e nelle soluzioni da adottare per sconfiggerlLa globalizzazione dell’economia e la sua progressiva finanziarizzazione

ha consentito anche ai criminali mafiosi di fare soldi con i soldi (avendone accumulati molti). La finanziarizzazione dell’economia si è mostrata assolutamente congeniale alle caratteristiche “imprenditoriali” dei mafiosi e al riuso dei loro capitali. Le mafie sono, perciò, tra le forze protagoniste dell’attuale fase della finanziarizzazione dell’economia. E se nella fase storica precedente erano state le relazioni politiche e istituzionali a consentire una presenza

nell’economia locale, oggi sembrano essere le regole del gioco dell’economia finanziaria

a garantire il nuovo ruolo delle mafie nei mercati locali e globali.  L’economia finanziaria si è dimostrata, in questa fase storica della criminalità mafiosa, un’alleata preziosa perché per detenere un ruolo economico importante non basta il controllo del traffico di droghe, ma serve un meccanismo, un metodo, un’opportunità che consenta un riuso dei profitti illecitamente acquisiti. Dentro il vecchio ordine finanziario le mafie non avrebbero potuto ottenere questa chance, o  almeno nelle proporzione in cui è possibile oggi. Senza la possibilità di riciclare i proventi delle droghe con i meccanismi usati abitualmente per nascondere la ricchezza, sottrarla alle tasse o utilizzarla senza passare per la produzione di beni, sarebbe stato per le mafie enormemente più complicato riutilizzare i loro capitali. Tutto ciò è avvenuto in maniera accelerata a partire dagli ultimi due decenni del XX secolo, quando le mafie hanno sempre più strutturato le operazioni su scala transazionale, “approfittando della globalizzazione economica e delle nuove tecnologie di comunicazione e di trasporto.” (Castells, pag. 189). Il peso attuale della criminalità mafiosa nell’economia mondiale è elemento stabile della globalizzazione. Anche chi non lo considera un prodotto della globalizzazione, non può comunque non considerarlo un problema serissimo della globalizzazione.

3  L’assonanza tra regole opache dall’attuale funzionamento dell’economia e alcuni valori imprenditoriali delle mafie.  La crescita della criminalità mafiosa non sembra sia stata ostacolata dall’economia legale. Nella dimensione imprenditoriale non esiste un confine sicuro, certo e invalicabile tra attività legali e quelle illegali. E non basta la morale o la religione a porli. L’economia legale non scaccia automaticamente l’economia illegale e criminale, tra le due non c’è totale incompatibilità, l’una non contrasta l’altra, anzi la convivenza sembra essere la caratteristica del loro rapporto. L’inconciliabilità tra economia legale ed economia illegale sembra essere una pia aspirazione del pensiero economico classico, più che una certezza scientifica. Nella prassi la compatibilità e un loro reciproco adattamento sembrano prevalere.

Il ruolo, poi, della diffusa corruzione si è mostrato un elemento facilitatore della presenza mafiosa nei mercati mondiali.

Siamo di fronte, insomma, ad un’accumulazione criminale di tipo predatorio che ha trovato uno spazio di inserimento (senza esserne respinto o significativamente ostacolato) nell’economia legale globalizzata.

Si dirà che questa non è una novità. Ed è vero. Carlo Marx parlò nel primo libro de “Il Capitale” di violenza come “potenza economica” a proposito dell’accumulazione originaria. Ma non si riferiva alla criminalità. Nell’impresa criminale l’accumulazione violenta e selvaggia non è un prima che viene poi superato quando l’impresa è diventata concorrenziale sul mercato e si è liberata dalla fase “violenta”. Essa, al contrario, anche quando entra nell’economia legale, non lascia mai le attività illegali. Se le lasciasse, smetterebbe di essere impresa mafiosa. Le imprese mafiose sono le uniche che pur partendo da un’accumulazione violenta o gestendo solo attività illegali (in gran parte legate alla domanda di soddisfazione di vizi privati, in particolare gioco, droga, prostituzione, etc.) arrivano sul mercato legale senza mai abbandonare quello illegale. E’ questa la novità del capitalismo mafioso. i mafiosi si muovono su entrambi i mercati e legano indissolubilmente l’uno all’altro, trasformando ciascuno dei due campi in supporto all’altro. E’ la prima volta in maniera così aperta che si presentano sul mercato imprenditori che strategicamente e stabilmente operano su entrambi i campi. Questa l’originalità dell’impresa mafiosa sia nella storia della criminalità sia nella storia del capitalismo contemporaneo.

E’ come dire che l’impresa mafiosa è “impresa di due mondi”, l’unica che coinvolge abitualmente e strutturalmente il mondo legale e quello illegale; è un’impresa economica dalla duplicità strutturale, e dimostra che i due mondi possono essere l’uno la continuazione dell’altro.

Per questi motivi non avviene mai che una volta conquistato un ruolo economico e finanziario nell’economia mondiale, le mafie abbiano allentato i rapporti con i loro territori di origine o con la politica. La grande ricchezza conquistata non le ha né deterritorializzate né depoliticizzate. Le ha però inserite tra gli attori dei cosiddetti “crimini economici”, cioè di quella parte dell’economia condizionata sempre più da comportamenti illegali ai fini di maggiori profitti  e da aggiramento delle leggi per competere meglio su mercati concorrenziali.

Certo le mafie non sono monopoliste della criminalità economica , ne sono solo un comparto, sempre più in crescita ma solo un settore. Pur non essendo la stessa cosa, comunque una relazione c’è tra il maggior ruolo oggi delle mafie nell’economia e il sempre più crescente peso dell’illegalità nella competizione tra imprese e nella generazione di profitti. Sarebbe stato possibile, infatti,  un ruolo così espansivo delle mafie nell’economia italiana e globalizzata senza la presenza di un campo così esteso di economia illegale o di competizione basata sull’aggiramento delle leggi? O senza la creazione di metodi ingegnosi e luoghi definiti per occultare la ricchezza ai fini di aggiramento dei sistemi fiscali dei loro Paesi?

Indubbiamente no. Le mafie si trovano a loro agio e sfruttano le opportunità di un mercato capitalistico sempre più opaco e sempre più condizionato dal “fare soldi con i soldi”.

Molti studiosi ritengono che alcuni reati economici messi a frutto da imprenditori non mafiosi abbiano avuto e abbiano conseguenze in vite umane superiori al numero complessivo delle vittime delle mafie nei vari paesi in cui esse sono radicate e prosperano. Solo le vittime della tragedie del Vajont sono superiori alle vittime complessive della prima e della seconda guerra di mafia in Sicilia; le vittime di edifici mal costruiti in zone di terremoti sono superiori a tutte le guerre di camorra;  i morti di cancro per produzioni non conformi alle leggi o per sversamenti di materiali tossici sono superiori a tutte le vittime della ‘ndrangheta. Insomma alcune attività economiche uccidono più persone di quante ne fanno vivere. (Gayraud, pag.39)

Nonostante tutto ciò, e nonostante si condivida la definizione di criminali per gli imprenditori legali responsabili di tali reati, c’è e va sottolineata, come si dirà in seguito, una differenza e una distinzione tra chi arriva sul mercato legale dopo un’accumulazione predatoria (basata sull’uso sistematico della violenza fisica) e chi invece sta sul mercato legale e usa metodi illegali causando una violenza differita nel tempo (come nei crimini ambientali) o danneggia l’economia sottraendo i propri profitti al fisco. Il sociologo Vincenzo Ruggiero sostiene nel suo libro Economie sporche che la distinzione tra crimine economico e crimine organizzato è solo un’anomalia analitica dovuta alla suddivisione in diverse specializzazioni della criminologia. Ma va ribadito che un imprenditore mafioso non è la stessa cosa di un imprenditore che aggira la legge pur di accumulare profitti, che evade il fisco o che corrompe per accaparrarsi affari.  Non li divide la spietatezza o la spregiudicatezza, ma il ricorso sistematico o meno all’uso della violenza personale e le modalità con cui si è accumulata in origine la ricchezza.

La ricchezza, appunto. Com’è stato possibile che da una realtà da sottosviluppo economico, qual è il Sud d’Italia, si siano prodotti fenomeni criminali tra i primi e tra i più ricchi del mondo? E come, analogamente, è stato possibile che in paesi sottosviluppati dell’Asia e dell’America latina si siano prodotte alcune delle criminalità che incidono in maniera notevole sul Pil di quelle nazioni? C’è un nesso tra l’eccellenza criminale e l’arretratezza economica?

Il caso italiano è più vicino  a quello delle altre realtà mondiali sottosviluppate in cui si sono prodotti fenomeni criminali ricchi (America latina, Turchia, Afghanistan, etc) oppure bisogna avvicinarlo a quello del successo delle mafie negli Stati Uniti, il paese più ricco al mondo che ha prodotto una delle criminalità più potenti al mondo? Il successo in questo periodo storico delle mafie meridionali nella ricca economia del Nord d’Italia sembra mischiare l’uno e l’altro modello.

E di conseguenza ci si pone un ulteriore domanda: se le mafie sono così ricche, come mai i territori in cui operano sono ancora sottosviluppati? Secondo molti studiosi sono le mafie a bloccare lo sviluppo del Sud: da questo punto di vista le mafie sarebbero le madri del sottosviluppo e non le figlie. Questa spiegazione non è del tutto convincente: non è dimostrato affatto che il ritardo del Sud sia dovuto storicamente alle mafie, eliminate le quali il Mezzogiorno d’Italia si svilupperebbe agli stessi tassi di crescita del Centro-Nord; tutt’al più è un auspicio. L’impressione è che in molti momenti cruciali della storia economica meridionale le mafie abbiano svolto una funzione di contenimento dei disagi in alcune precise realtà e in alcuni precisi ambienti sociali: il crimine è sembrato assurgere a meccanismo di tenuta e di riequilibro in realtà dove lento è stato lo sviluppo produttivo. Si può quasi parlare di keinesismo delinquenziale o criminale, riprendendo una felice espressione di Marcello De Cecco. Da questo punto di vista le mafie sembrano essere uno degli esiti del tipo di sviluppo scelto negli anni per il Sud d’Italia, ma che a sua volta lo accompagnano e lo determinano.