I droni guidati da remoto sono l’ultimo, sofisticato e letale prodotto dell’industria delle armi; una produzione   che non conosce sosta, non lamenta carenza di fondi, e sta mettendo sul mercato droni che si stanno staccando dal remoto per diventare completamente autonomi, capaci di strategie belliche, di decisionalità.

Un prodotto altamente tecnologico che interroga l’etica ma di cui Cina, Usa, Russia, Israele e Gran Bretagna non si vogliono privare; segna il futuro della corsa degli armamenti tuttavia, ai terribili effetti sulla popolazione civile, nel contesto dei conflitti, aggiunge esiti preoccupanti di spersonalizzazione di chi comanda i droni assassini, e ancor di più se non li comanderà.

Il rapporto tra remoto e realtà sta già sfumando in quello che sembra un videogioco; il rapporto del corpo a corpo è tramontato da un pezzo ma adesso, il sangue, il dolore, la morte seminata dal drone non sembra, non è, ma si da per tale, ancora più “asettica” di quella di altre armi, mai “intelligenti”.

La guerra, da tragico gioco di adulti che intendono acquisire rapidamente potere e risorse, con il killer-robot varca la soglia di un’azione di guerra specifica ma staccata dagli occhi e dalle sensazioni di chi la provoca.

La coalizione di organizzazioni non governative, no-profit, e di altro associazionismo civile, Future of life Al Now istitute (fondata ad aprile 2013), sta portando avanti la campagna “I can”- Coalition Against Nuclear Weapon che punta a vietare, preventivamente, la ricerca e l’uso del Killer Robot e all’adesione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Melbourn, Australia, 2007), già operando (con sede a Le Grand Saconnex, Ginevra), con 532 partner, in 103 paesi.

L’Onu ha adottato il Trattato (TPNW), nel luglio 2017, con 122 voti: esso proibisce sviluppo, testaggio, produzione, acquisto, possesso, stoccaggio, trasferimento e uso di qualsiasi arma nucleare.

Il 6 ottobre dello stesso anno, “I can” ha avuto il Nobel per la Pace con la motivazione: “Per il suo lavoro, per portare l’attenzione alle conseguenze umanitarie catastrofiche di qualunque uso delle armi nucleari e per i suoi straordinari sforzi per ottenere un trattato che metta al bando queste armi”.

Per passare dall’orrore, quasi fantascentifico, del drone armato e autonomo, al TPNW, basterebbero le tre leggi della robotica stabilite da Isaac Asimov (1920-1992), scrittore e biochimico russo naturalizzato statunitense, che esplicitò cosa un robot deve fare: 1) non danneggiare un essere umano ma non fargli mancare aiuto in caso di umana difficoltà; 2) obbedire agli ordini umani purché non contrastino con la prima legge; 3) proteggere la propria esistenza, nel rispetto delle prime due leggi.

Un’ulteriore e sinergica opposizione ai Killer-Robots, ha per capofila Amnesty International e Human Rights Watch con la loro Campain to Stop Killer Robots: per non perdere la speranza di riuscire a far ragionare il mondo e lavorare per il successo già colto dall’International Campaign to Ban Landmines, fondata dall’attivista americana Jody Williams (1950), Premio Nobel per la Pace (1997), oggi grande protagonista anche di quella contro i Killer-Robots.

161 Paesi hanno messo al bando le mine anti-uomo e si può sperare che gli stessi e altri ancora mettano al bando una tecnologia da bloccare nella sua versione assassina.

La Rete di pace italiana ricorda, a tema, l’incontro della Convenzione su certe armi convenzionali (CCW) e non convenzionali, in calendario a Ginevra (14-15 novembre 2019), cui parteciperanno115 Stati già impegnati nella messa al bando di armi che infliggono inutili sofferenze e colpiscono indiscriminatamente, e, oggi, dei droni armati a qualsiasi stadio di remoto o di completa automatizzazione si trovino. Al momento, sono vietate mine, trappole esplosive, armi incendiarie su civili, laser accecanti e frammenti non tracciabili dai raggi X.

Ricordiamo che l’Italia ha ratificato l’Arms Trade Treaty, approvato dall’Onu (aprile 2019), che vieta l’esportazione di queste armi nei Paesi in guerra, sotto embargo Onu o accusati di violare i diritti umani. Occorrono però le firme di 50 Stati per raggiungere l’obbiettivo.

Roma ha accolto calorosamente una giovane attivista libanese, Shirine Jurdi, impegnata nella Campain to Stop Killer Robots per l’associazione Global Partnerschip for the Prevention of Armed Conflicts, invitata da Luisa del Turco del Centro Studi Difesa Civile a tenere, il 1° ottobre, una conferenza all’Università La Sapienza a quasi 20 anni dall’adozione della Risoluzione Donne Pace e Sicurezza dell’ONU (re. 1325/2000), ha potuto seguire, insieme alla Women’s International League for Peace and Freedom (Wilpf) – di cui è la coordinatrice per il Medio Oriente – le iniziative del 2 ottobre all’Università Roma Tre e del 3 ottobre al Parlamento, per il lancio della seconda Marcia Internazionale per la Pace e la Non Violenza o Jai Jagat, in indiano Vittoria nel Mondo, partita da Madrid.

Un percorso simbolico e fisico animato dalla consapevolezza, dall’attivismo solidale, dal voler costruire una vita migliore per le generazioni attuali e future contrastando illibertà, violazioni dei diritti umani, sperequazioni, sfruttamenti, disuguaglianze e guerre; le tante guerre, conosciute o taciute, che stanno distruggendo persone, ambiente e risorse in molte parti del pianeta, con effetti globali e transgenerazionali.

Nell’intervista gentilmente concessaci da Shirine Jurdi, nata e cresciuta in zone che hanno una diretta conoscenza della guerra, in cui tutto è stato distrutto “non come Roma, bellissima, dove rimangono monumenti antichi”, sono stati rilevati temi e finalità della Campain to Stop Killer Robots e la necessità che tali armi letali, usati sovente, anche in Siria e nelle Filippine, cessino di colpire la popolazione tutta.

“Il nostro è un movimento che parla a tutti e a tutte” ha detto Shirine, “Dobbiamo lottare insieme per fermare gli armamenti e la guerra che provocano disastri; dobbiamo investire diversamente le risorse per favorire lo sviluppo sociale ed economico, cosa che coinvolge, a catena, culture, movimenti, la partecipazioni di sigol*.

Ringraziando per l’entusiasmo con cui è stata accolta da vario associazionismo e in merito alla Campagna e alla Marcia, Shirine Jurdi si è detta ottimista che si riesca a liberare: “Paesi dove, durante la guerra, ci sono difficoltà a esprimersi liberamente; dove le donne vivono in una situazione terribile, dovendosi occupare di tutto, sempre esposte, ma indispensabili alla sopravvivenza”.

Auspica che seri e urgenti accordi internazionali fermino il traffico di persone e di armi, in Siria.

Conoscere le diversità delle situazioni, la loro origine, le motivazioni, è la prima cosa:

“Bisogna fermare la guerra; bisogna insegnare il cambiamento, puntare a risolvere il problema” E ancora: “Serve una rivoluzione non di armi ma pacifica che coinvolga gli aspetti sociali, culturali ed economici; credo nel cambiamento”.

Shirine parla con consapevolezza, di genere e sottolinea le differenze esistenti nei vissuti di donna, secondo il Paese in cui si nasce o si vive, comunque: “siamo solo una parte della politica, ma siamo noi la politica e bisogna impegnarsi, ognuna ha la sua responsabilità”.

Lei incontra la popolazione, parla delle problematiche, “ma soprattutto di come risolverle.”

Parla del grande “potenziale lavorativo di donne che vivono in Paesi pervasi di violenza, privata e di guerra, senza possibilità di esprimersi; dovrebbero averla.” E ancora: “Le donne, nei paesi in guerra, sono ancora più svantaggiate, per la guerra stessa e per la situazione economica che la segue”.

Le Olimpiadi del 2020, a Madrid, saranno come al solito una vetrina in cui visibilizzare ulteriormente le campagne pacifiste e antiarmiste in corso e la situazione politica e sociale di uomini e donne dei vari Paesi.

 

Shirine ha studiato materie politiche ed econonomiche in Giappone e a Londra, pubblicando la sua ricerca “Attivismo femminile e partecipazione politica nelle aree di conflitto: il Libano come caso di studio” con il sostegno dell’ufficio Ofias e del fondo Isps (2010-2011). articolata in tre stadi: raccolta di dati primari e secondari sull’attivismo delle donne in Libano; inserimento dell’attivismo femminile nel contesto anche confessionale e nel della regione; descrizione dello status delle donne libiche e in generale, sotto l’aspetto anche delle violenze (www-tifs.ac.jp/ofias/j/itp/Final Report_Shirine_Jurdi.pdf).