Un articolo di Chiara Saraceno in prima sulla Stampa del 17 gennaio ({Donne senza mariti}, un articolo di Paolo Zanca sull’Unità di venerdì 19 {Niente figli, siamo italiane} e sul tema delle donne single la trasmissione su La 7 di Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni con la sociologa e deputata Franca Bimbi, la giornalista del Corriere della Sera Maria Laura Rodotà e altri. Insomma, il fenomeno in netto aumento delle donne single fa un certo scalpore. Ma in che cosa consiste realmente? Secondo {{Saraceno}} il matrimonio è sempre di più una condizione svalutata della vita adulta.

Negli {{Stati Uniti nel 2005}} per la prima volta le donne senza marito hanno superato di numero le coniugate conviventi. In {{Italia}} ancora no, ma sembra che siamo sulla buona strada. Tra le donne senza marito ci sono molte vedove e questo ci è chiaro da tempo dato che le donne vivono più a lungo; o forse anche perché di solito i mariti hanno qualche anno di più. Vivere più a lungo e da sole, sembra essere la condizione non troppo felice di molte donne italiane alle prese con una politica ancora posizionata sull’idea che la vecchiaia è un affare di famiglia: dei figli, dei nipoti, eccetera.

Tra le senza marito ci sono anche le separate e le divorziate. In aggiunta anche una piccola percentuale di donne coniugate che vivono lontane dai rispettivi coniugi. Una novità , perché quando ciò accade per motivi di lavoro segna un mutamento di costume in quanto una volta era normale soltanto per i mariti vivere lontano dalla residenza familiare per lavoro.

Tra le donne sole ci sono quelle che hanno una relazione ma, come dire, ciascuno a casa sua. La Saraceno segnala le {{ {living apart together} (vivere separati insieme) come una forma emergente}}. Con buona pace della Chiesa Cattolica e degli “atei devoti” come Pera e Ferrara, la forma antica, tradizionale, della coabitazione matrimoniale sotto lo stesso tetto, sta diventando {una} delle forme delle relazioni di coppia eterosessuali. Pare siano soprattutto le donne che, dopo la fine di un matrimonio, preferiscano una vita relazionale e affettiva a distanza.

Questi cambiamenti, scrive {{Chiara Saraceno}}, sono profondamente segnati dai mutamenti delle aspettative e delle risorse delle donne .
Allora ritornano le zitelle, si sono chiesti i partecipanti alla trasmissione “Otto e mezzo” de La 7?

{{La parola zitella è uscita dal vocabolario da alcuni decenni}}. Una donna che si avvicinava ai trentenni ancora negli anni sessanta era catalogata come zitella. La zitella era una vergine considerata bruttina e molto religiosa. Ma questo era lo stereotipo difensivo di una società che le zitelle le produceva per utilizzarle come zie colf , baby sjtter e soprattutto come sostegno ai genitori anziani.

Faceva comodo pensare che qualcuna avesse nutrito un amore segreto e non corrisposto e che qualche altra avesse scelto liberamente di dedicarsi alla famiglia sua e dei fratelli. Era una figura di donna utile alla conferma dell’immagine della coniugata: entrambe, su piani diversi, dovevano pensarsi e vivere nella totale disponibilità agli altri; sopportando persino a volte un marito violento o dedito ad altri rapporti amorosi.

Il destino delle donne era il matrimonio e la maternità , in cambio del mantenimento a vita da parte dei mariti. Se una donna voleva realizzarsi come persona: non in funzione della sponsalità e della maternità, poteva scegliere la via celibataria della “consacrazione a Dio” in un ordine religioso, o in istituto secolare che le permetteva di fare la single.

Di questa realtà di donne senza marito ancora diffusa in Italia negli anni sessanta e nei primi anni settanta, nessuno se ne ricorda. Perché le congregazioni e gli ordini monastici femminili sono in crisi di estinzione? La religione dava una giustificazione socialmente accettabile alle donne che volevano sottrarsi alle catene del matrimonio patriarcale, con la possibilità della vocazione religiosa.

Oggi non è più necessario inventarsi {la-vocazione-religiosa} se, come scrive il giornalista dell’Unità , una giovane preferisce (e l’evoluzione dei costumi glielo permette) terminare gli studi e trovare un lavoro prima di fare un figlio.

Ma poi quando, alla soglia dei trenta e anche oltre decidono di fare un figlio, in {{un’alta percentuale di donne si vedono costrette a lasciare il lavoro}} sia perché il contratto a tempo determinato è scaduto prima della gravidanza sia perché non sono più in grado di conciliare gli impegni lavorativi con quelli di casa e famiglia.

Scrive {{Zanca}}: “Anche se la maggioranza delle lavoratrici (il 70% circa) riprende a lavorare dopo la nascita del figlio, le strategie di conciliazione somigliano a vere e proprie tattiche di guerra. Per evitare vite schizofreniche molte donne sono costrette a ripiegare sul part- time, più per imposizione che per scelta, e rinunciare così a possibili avanzamenti di carriera”.

I partner italiani soltanto nella misura dell’8,5 hanno usufruito di un periodo di congedo parentale entro i primi due anni di vita del figlio/a.
Mentre, come si sa, mettere un figlio/a in un asilo è un’impresa assai difficile.