Dopo gli ultimi scontri armati, fatti oramai quasi quotidiani, tra Hamas e l’esercito israeliano, con il lancio di oltre 180 razzi, oltre ai consueti aquiloni e palloni incendiari verso Israele, e 150 operazioni mirate dell’aviazione israeliana, una precaria tregua sembra nuovamente essere entrata in vigore a mezzanotte, grazie alla mediazione egiziana.

I tentativi in corso sono così importanti che il Premier israeliano Netanyahu ha annullato una visita in Colombia da tempo programmata, convocando domenica scorsa il Consiglio di Sicurezza del Governo in un bunker sotterraneo a Tel Aviv, per garantire la massima segretezza alla discussione; mentre quattro alti dirigenti di Hamas dell’esterno, guidati dal capo militare di Hamas in Cigiordania, Saleh al-Arouri, arrivavano a Gaza via Egitto, con garanzia di incolumità fornita dai servizi segreti israeliani.

Due di questi negoziati sono condotti in parallelo dai servizi di sicurezza egiziani, il primo rivolto a ottenere il ripristino della tregua tra israeliani e palestinesi, interrotta il 30 di marzo con l’inizio delle “Manifestazioni per il Ritorno” del venerdì, indette da Hamas al confine con Israele, e duramente represse dalle forze armate israeliane.

La proposta egiziana prevede l’impegno di Hamas a interrompere le marce del venerdì e il lancio di aquiloni e palloni incendiari sulle zone di confine israeliane, che hanno provocato numerosi incendi ai boschi e alle piantagioni, oltre che i lanci di razzi e i tentativi di infiltrazione in Israele.

Di ritorno, verrebbe garantita la riapertura più prolungata del valico di Erez con Israele, l’allargamento dell’area di mare consentita ai pescatori della Striscia, ristretta dopo l’esplodere dei primi incidenti a fine marzo, una riapertura stabile del valico di Rafah con l’Egitto, la fine delle incursioni israeliane su Gaza.

Il secondo canale negoziale è quello interpalestinese, volto a ridare vita all’accordo siglato tra Fatah e Hamas alla fine del ’17, e mai in realtà entrato in vigore. L’accordo prevedeva la formazione di un governo di unità nazionale, composto di tecnici (che è stato creato, ma non è mai entrato in funzione a Gaza) e l’indizione a breve di nuove elezioni presidenziali e legislative.

Il nocciolo della disputa tra le due fazioni è che Hamas punta a attribuire a questo governo provvisorio la responsabilità amministrativa della popolazione, sempre più onerosa e difficile da mantenere, tenendo per sé il controllo delle forze militari di cui dispone, ben più forti di quelle dell’Autorità palestinese. Altro punto di contrasto è il diritto di riscuotere le tasse da parte di tale governo. Il Presidente palestinese Abbas vuole invece che all’Anp sia garantito il controllo totale della Striscia, non un controllo dimezzato.

Il nuovo negoziato al Cairo parte quindi in salita, perché Abbas vede come un affronto e si sente emarginato per i negoziati indiretti in atto tra Hamas e Israele, accusa Hamas di tradimento, e ha posto agli egiziani 14 condizioni per l’accoglimento della loro proposta, che sostanzialmente la rendono inattuabile.

Accanto ai due tentativi egiziani, è in atto un tentativo a più largo raggio del Coordinatore speciale dell’Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov, “che considera le proposte egiziane come un primo stadio, cui far seguire un piano più ambizioso per la riabilitazione di Gaza, con la creazione di un porto e successivamente di un aeroporto al servizio della Striscia, da costruire in territorio egiziano e sotto il controllo del Cairo, per evitare l’afflusso di armi, ed il varo di un vasto piano per la ricostruzione delle abitazioni dell’area, devastate dall’ultima guerra del 2014.

Allo scopo sarebbero già stati reperiti ingenti fondi, del Qatar, degli Emirati, dell’Europa, di altre organizzazioni internazionali, per oltre 600 milioni di dollari. Questi fondi sarebbero utilizzati direttamente sul terreno, sotto il controllo egiziano e di altri donor.

Su tutti questi canali negoziali in atto, aleggia infine il piano di pace Usa, di un cui rilancio si parla insistentemente in questi giorni, e che probabilmente attende l’esito di questi tentativi per materializzarsi, come riporta ancora in questi giorni un importante articolo del quotidiano israeliano Ha’aretz”, ripreso sull’Huffington Post da Umberto Di Giovannangeli.

Perché al Cairo si vada avanti, un primo problema è che, senza un accordo Fatah – Hamas, Israele dovrebbe procedere scavalcando l’Autorità palestinese. La cosa non dispiacerebbe del tutto a Netanyahu, che non considera l’Anp un interlocutore credibile, e anche i governi arabi e le organizzazioni internazionali potrebbero decidersi a procedere direttamente, in nome dell’emergenza, senza attendere il benestare di Abbas.

Il Premier israeliano potrebbe vedere questa addirittura come un’opportunità, perché non lo impegnerebbe in una ripresa del negoziato di pace più generale, e manterrebbe in piedi la frattura interpalestinese.

Quanto ai maggiori Stati arabi, i sauditi hanno sempre guardato con un’attenzione particolare alla Striscia di Gaza, considerandola come una potenziale piattaforma per la sua rinnovata proiezione verso il Mar Rosso; e inoltre la nuova generazione di leader arabi, di cui il saudita Moḥammad bin Salman (MBS) rappresenta l’esponente più emblematico, contrariamente alla precedente generazione non vede la costituzione di uno Stato palestinese come un obbiettivo essenziale, ma come un potenziale rischio di deriva estremistica, un possibile nuovo anello dell’arco di influenza sciita.

Ma vi è un secondo ostacolo: Hamas detiene i corpi di due soldati israeliani deceduti nella guerra del ’14, e di due civili che hanno sconfinato nella Striscia, e per rilasciarli pretende la liberazione di prigionieri palestinesi, in particolare di quelli che erano stati rilasciati nel 2011 nello scambio per la liberazione del soldato Shalit e successivamente riarrestati, dopo l’eccidio dei tre giovani israeliani nel giugno 2014.

Israele non vuole neanche sentirne parlare, al massimo potrebbe rilasciare quelli che non si sono macchiati di atti terroristici sanguinosi. Così, tutto è bloccato.

La cosa più probabile è che si arrivi nelle prossime settimane almeno al primo stadio, al ripristino della tregua e della situazione esistente il 29 marzo, prima dell’inizio delle manifestazioni per il Ritorno, rinviando a un secondo stadio la discussione del piano Mladenov, lasciando intanto nel suo cantuccio Abbas.

Ma intanto, nuovi incidenti scoppiano a ripetizione, anche molto gravi come quelli di questi ultimi giorni.

Israele è perfettamente consapevole che, anche se scatena una guerra, con tutte le possibili perdite di militari e civili che potrebbero derivarne, oltre alle gravi perdite inflitte ai palestinesi che lo isolerebbero sul piano internazionale, al suo termine si ritroverebbe esattamente al punto di oggi; il suo obbiettivo non è quello di abbattere Hamas, cui potrebbero sottentrare gruppi jihadistici ancora più pericolosi, e tanto meno quello di riassumersi il pesante onere della popolazione civile della Striscia, in quanto potenza nuovamente occupante. Come scrive Amos Harel sul quotidiano israeliano Ha’aretz, è un po’ uno di quei film in cui ci si sveglia la mattina e si è costretti a ripetere sempre lo stesso giorno da capo.

Ma si cammina sul filo del rasoio. Basta che uno dei razzi di Hamas cada su un asilo israeliano facendo una strage di bambini, o che una bomba israeliana sbagli mira e faccia una strage di civili palestinesi a Gaza, perché la guerra ritorni. Speriamo che anche questa estate non sia funestata da questi lutti, invece di essere un’estate che porti pace e ristoro a questa Striscia in condizioni così drammatiche.

 

Tratto da Huffington Post – Blog di Janiki Cingoli