Donne discriminate in università? La denuncia del Rettore della Normale di Pisa sulla scarsa presenza femminile nei ruoli apicali dello storico ateneo Toscano,  non riguarda l’Università di Bergamo che ha invece una tendenza diametralmente opposta.

A Pisa è stata annunciata come una notizia clamorosa, l’arrivo della «prima donna ordinario alla classe di scienze (le altre due sono di Lettere e Scienze Sociali,) in oltre 200 anni di storia». Colpa dell’ostruzionismo maschile che ha sempre ostacolato le carriere al femminile, spiega Vincenzo Barone in una intervista che ha fatto il giro dei media nazionali. Ultimo quello di ieri sera durante la trasmissione “Le parole della settimana” di Massimo Gramellini.

L’Università di Bergamo, che ha appena compiuto cinquant’anni, convive con ben altri numeri. Su sette direttori di dipartimento (ex presidi di facoltà) ben 4, più della metà dunque, sono donne. Tra l’altro, anche in quelle facoltà che per vocazione sono solitamente al maschile, come Ingegneria, nel nostro Ateneo a capo del dipartimento ci sono ben due docenti donna. Inoltre, su nove Prorettori, quattro sono donne. Anche il numero di cattedre premia l’intraprendenza femminile e l’assenza, almeno palese, di discriminazioni di genere da parte dell’apparato docente maschile. Su 345 risorse, tra docenti di prima e seconda fascia e ricercatori, 139 sono donne (40%).

Ma è sempre stato così? Nel 1968, anno di fondazione dell’Ateneo, la sola facoltà di lingue contava su 13 docenti, 3 donne, se invece si prendono in considerazione lettori e assistenti su un totale di 11 incaricati sei erano donne. In piena rivoluzione studentesca, dunque, le quote rosa erano rappresentate seppur in forma minoritaria. Certo, anche in questa Università, nell’ufficio di rettorato per ora non è mai entrata una donna. Anche se le candidature non sono mancate.

L’ateneo bergamasco promette nuove rivoluzioni. Basta osservare il flusso di studenti nelle diverse facoltà. Ad ingegneria gestionale per esempio le donne sono il 30%. Agli esordi negli anni ‘90, di studentesse non ve ne era nemmeno una. Guarda il servizio di Paola Abrate per BergamoTg.

Ormai la presenza delle studentesse nelle università italiane è superiore a quella maschile, arriva al 52%. Ma, purtroppo, permane il gap di genere nella carriera universitaria. Per superare il problema a Milano, si sono mossi gli stessi atenei. Il Politecnico, presenta un programma di aiuti per studentesse e dottorande, la Bocconi lancia un piano per le carriere delle docenti e l’università Bicocca inaugura una scuola dell’infanzia interna. Così anche le università milanesi ripartono dalle donne. E benché le quote rosa stiano crescendo tra i docenti, restano velocità diverse: fra professori ordinari e associati le donne sono ancora in minoranza.

Così l’università di Bergamo è l’eccezione che conferma la presenza di molte difficoltà che si presentano per le donne negli atenei italiani. Da dati del ministero sappiamo che la fotografia è ancora deprimente. 

Lo Stato dell’Arte del Ministero sul personale accademico, lancia un allarme: aumentano ancora le differenze nelle carriere tra uomini e donne. I dati parlano chiaro: nell’area della dirigenza amministrativa, la presenza femminile si attesta al 40%, mentre tra i professori di I o II fascia si riduce a poco più del 31%. Il genere prevalente è quello maschile (51,3%), inoltre emergono delle differenze tra le varie tipologie di personale. Si osserva, infatti, che le donne costituiscono più della metà del personale tecnico-amministrativo (58,5%), mentre tra docenti e ricercatori la loro presenza scende al 40%. Inoltre, in entrambi i casi si rileva che le donne sono poco rappresentate nelle posizioni di vertice della carriera. Lo schema della struttura universitaria è chiara: 22,3% sono le professoresse ordinarie, 37,2% professoresse associate, 46,6% le ricercatrici e 50,7% le titolari di assegni di ricerca.

LEGGI ANCHE: Donne e carriera, dopo la laurea le prime difficoltà: lo dice uno studio italiano

Donne e università: il confronto con gli altri paesi europei

Tale situazione è, tuttavia, abbastanza comune e diffusa anche in altri paesi europei per quanto riguarda il binomio donne e università . La percentuale di donne afferenti al Grade A, corrispondente ai professori ordinari italiani, in Europa è pari a circa il 21%. Tra il 2010 ed il 2013 la presenza delle donne a questo livello è aumentata in tutti i paesi europei, sebbene in misura diversa.

Ad esempio, in Ungheria e Danimarca si osserva un aumento della quota femminile di oltre 3 punti percentuali (rispettivamente da 20,6% a 24,1% e da 16,1 a 19,2). Mentre in Francia e nei Paesi Bassi l’incremento è inferiore ad 1 punto percentuale (rispettivamente da 18,7% a 19,3% e da 14,6% a 15,4%). L’Italia, in linea con la media europea, registra un incremento di circa 1 punto percentuale (da 20,1% a 21,1%) ed una quota di donne professore ordinario più alta rispetto a quella di Spagna, Francia e Germania.

Perché le donne spesso non ce la fanno?

Le difficoltà di avanzamento di carriera delle donne sono spesso connesse a una loro presunta minore competitività e produttività. I dati mostrano che le donne meno spesso degli uomini sono riconosciute come le responsabili scientifiche di una pubblicazione di ricerca. Inoltre, nella competizione per l’accesso ai fondi di ricerca, hanno minori tassi di vittoria rispetto agli uomini, insomma partono già svantaggiate. Molti degli abbandoni del lavoro accademico sono legati alle condizioni difficili delle donne. Molto più degli uomini, infatti, si trovano a dover conciliare impegni fuori e dentro casa. Uno squilibrio di genere che si accentua in alcune aree disciplinari, ad esempio fisica e ingegneria industriale, e nei livelli gerarchici più alti (solo il 21% di docenti di prima fascia è donna).