Nessuno ha la pretesa  di attendersi da un padre la lucidità, la freddezza e l’obiettività di giudicare il proprio figlio.

Da un personaggio pubblico e “capo” di una compagine che ha raccolto oltre il 30% dei consensi elettorali e che, soprattutto,  si erge sistematicamente e da anni a  supremo moralizzatore anche con il massiccio utilizzo di mezzi di amplissima comunicazione,  ci saremmo invece aspettate  almeno il silenzio. Certo non una uscita che clamorosamente interferisce – in ogni caso, e a prescindere perfino dai censurabili  contenuti – con l’accertamento processuale in corso.

Invece apprendiamo che a suo giudizio essere a piede libero equivale – per la sua creatura – a prova di innocenza, con un rovesciamento del paradigma che ha scatenato in anni non lontani  gazzarre nelle aule parlamentari, portato i “rappresentanti del popolo” sui tetti di Montecitorio e indotto  lapidazioni  morali anche di  personalità eccellenti che  dovrebbero rappresentare motivo di orgoglio nazionale e per noi effettivamente lo rappresentano, specie di genere.

Ma  se la rivendicata innocenza  del figlio di Grillo si  accompagna  alla rivittimizzazione  in rete della ragazza che ha denunciato, alla quale non si concede neppure il beneficio del dubbio, venendo sprezzantemente descritta come  colei che ha denunciato dopo “otto giorni” una serata  di “divertimento” tra ragazzi, allora il tema ci appartiene come associazione e come donne.

E ci indigna, perché riecheggia antichi stereotipi di colpevolizzazione della donna, da quello “dell’essersela cercata” al retropensiero dell’accusa ingiusta, dettata da fini non  encomiabili.

E dunque ci auguriamo che taccia e rifletta il signor Beppe Grillo,  e sia consapevole della responsabilità  che grava su di lui come   massimo pubblico esponente  di una forza politica che è chiamata a garantire voce,  diritti  e dignità anche alle donne.

E, se può, si scusi. 

Associazione Volontarie del Telefono Rosa Piemonte di Torino