Per gentile concessione di Biblink editori, pubblichiamo l’introduzione al libro di Marta Seravalli “Arte e femminismo a Roma”. Il volume, assumendo il caso romano come campione d’indagine la ricerca, guidata e sostenuta da cinque interviste originali, mira a verificare l’apporto del femminismo allo sviluppo di determinati percorsi estetici e getta nuova luce sull’importante presenza artistica femminile dell’epoca, ancora oggi scarsamente riconosciuta.
Nel 1931, alla vigilia dell’avvento del Terzo Reich, Leontine Sagan,
regista austriaca trapiantata in Germania, gira il suo Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme). Il film è incentrato sulla storia di un
amore lesbico tra una studentessa e un’insegnante all’interno di un collegio femminile; il tema scabroso dell’omosessualità, appena celato da un presunto rapporto madre-­‐‐figlia tra la professoressa e la giovane scolara orfana, viene affrontato con grande coraggio, acquisendo rara forza drammatica nell’inquietante analisi della psicologia femminile, espressione del desiderio della regista di parlare dell’omosessualità tra donne, questione ancor più ‘vietata’ rispetto a quella maschile, che da non molto tempo aveva conquistato un suo diritto di cittadinanza almeno in ambito letterario .

{ {{Mädchen in Uniform}} }, costruito su un cast rigorosamente femminile, non prevede alcuna presenza maschile, neanche una comparsa. Un film di donne, fatto da una donna, sull’amore tra donne. Contenuto, si direbbe, tutto femminile.

Allieva di Max Reinhardt, Sagan costruisce la propria opera sul linguaggio del cinema di avanguardia degli anni Venti e Trenta, attingendo
dall’espressionismo tedesco della linea di Murnau l’uso incisivo delle
luci e delle ombre, e elaborando i suggerimenti futuristico-costruttivisti del cinema russo e degli esiti della Bauhaus nelle inquadrature delle architetture e nell’uso rapido della macchina da presa. Leontine Sagan: regista, donna, lesbica.

La ragione per cui mi è parso interessante introdurre la mia ricerca sui rapporti tra arte e femminismo a Roma negli anni Settanta del Novecento con il caso di {Mädchen in Uniform} risiede nel fatto che il film mi pare particolarmente adeguato a porre una domanda che mi sono fatta continuamente nel corso dell’indagine, rispetto alla quale il neo-­‐‐femminismo ha cercato di dare risposta senza tuttavia, a mio parere, giungere a una soluzione definitiva.
Prendendo in prestito le parole di Anne-­‐‐Marie Sauzeau Boetti, la domanda è questa: dove si inscrive la differenza sessuale in arte?

Riflettendo sul film di Sagan, tale quesito mi è sembrato porsi con grande chiarezza, poiché si tratta di un prodotto femminile, realizzato in una prospettiva completamente femminile, dove anche il sentimento, ambito nel quale sarebbe previsto l’altro sesso, è diretto invece ancora sulla donna. Se la differenza sessuale si inscrivesse nel contenuto, mi dicevo, la questione sarebbe presto risolta.

Nella vicenda delle protagoniste – l’alunna Manuela e l’insegnante Frau von Humboldt – emerge con evidenza la condizione delle donne nella
società repressiva e autoritaria della Germania di Weimar, e nella
narrazione è rintracciabile una certa insistenza sulla quotidianità femminile delle studentesse in età adolescenziale, con le prime pulsioni sessuali e la repressione delle stesse nella disciplina. I problemi sono emersi, tuttavia, nel momento in cui ho cercato uno specifico femminile nel linguaggio cinematografico di Sagan: la ‘forma’ del film mi pareva resistente a un qualsivoglia riconoscimento di genere.

La questione della forma e del linguaggio ritorna nella trattazione come un tema centrale, largamente dibattuto dal neo-­‐‐femminismo italiano e internazionale che propose, insieme al sovvertimento dell’ordine sociale patriarcale, un sovvertimento altrettanto rivoluzionario a livello di struttura culturale, allargato anche al campo dell’immagine e in generale delle arti visive.

Nella mia ricerca, quindi, ho cercato di capire se si potesse individuare, nell’opera delle artiste che ebbero contatti con il femminismo, una discriminante femminile specifica, e quanto la vicinanza al movimento avesse influito nella ricerca estetica di queste stesse artiste. L’indagine si inscrive in un campo ancora molto inesplorato e perciò ha assunto spesso un carattere pionieristico, muovendo dalla raccolta di cinque testimonianze di alcune protagoniste della vicenda artistica romana degli anni Settanta e, contemporaneamente, della stagione femminista
italiana.

Si tratta di quattro artiste e una storica dell’arte, con percorsi estetici, culturali e femministi di diverso tipo. {{Suzanne Santoro}}, americana trasferitasi a Roma dagli anni Settanta, frequentò il primo nucleo del collettivo Rivolta femminile, fondato da Carla Lonzi, Carla Accardi e Elvira Banotti tra il 1969 e il 1970, e successivamente prese parte insieme ad Accardi alla cooperativa di artiste { Beato Angelico}.

Anche {{Simona Weller}} partecipò a Rivolta, entrandovi al secondo anno
di attività e, successivamente, aderì al collettivo {Controstampa},
un’idea di Elena Gianini Belotti, che riuniva intellettuali, giornaliste,
magistrate e artiste.
Dagli anni Ottanta collaborò regolarmente con “Noi Donne” e nel 1987 partecipò alla fondazione di {Duna} (Unione Nazionale di Donne Artiste). Attraverso Rivolta femminile passò anche Cloti Ricciardi, aderendovi precocemente (fine del 1969 circa), ma distaccandosene in un secondo momento per dare vita al collettivo femminista di via Pompeo Magno, successivamente denominato Movimento femminista romano.

La vicenda femminista di {{Ida Gerosa }} è cronologicamente più tarda, e si colloca intorno alla seconda metà del decennio, quando l’artista comincia a frequentare l’associazione {Donna&Arte}, un gruppo di artiste di vario indirizzo, che operano in linea con le istanze femministe.

{{Silvia Bordini}}, invece, è una storica dell’arte che partecipò dal 1971 al Collettivo femminista comunista di via Pomponazzi, all’interno della commissione Donne e Cultura.

Riprodotte per intero in Appendice, le testimonianze sono di diversa natura. {{Santoro}} e {{Ricciardi}} hanno scelto la forma dell’intervista, e i loro
contributi sono un po’ più elaborati degli altri poiché, essendo io presente al momento della registrazione, ho avuto modo di aggiungere qualche domanda allo schema base posto alle intervistate.

Weller, Gerosa e Bordini hanno preferito rispondere per iscritto, inviandomi un testo da loro elaborato, che ha il pregio di fornire riferimenti cronologici molto precisi.
A proposito delle domande poste alle intervistate, esse risentono di un mio iniziale disorientamento rispetto alla situazione storica relativa alla materia della ricerca.
Ancora prive di un adeguato supporto bibliografico, le ricerche relative ai rapporti tra arte e femminismo sul suolo italiano, a differenza di altri Paesi, sono solo da pochi anni diventate oggetto di interesse della storia dell’arte. Per questa ragione ho inizialmente dato per certa una situazione artistica femminista, sotto forma di fenomeno riconosciuto, che invece in corso di ricerca si è verificata tutt’altro che unitaria, tanto da far dubitare la stessa ipotesi di ‘arte femminista’ sia nello specifico romano sia, più in generale, nel contesto nazionale.

Altra questione che solo attraverso le interviste ho avuto modo di mettere a fuoco, è la netta distinzione tra attività artistica e militanza femminista che alcune protagoniste operarono.
Successivamente alla raccolta e all’analisi delle testimonianze, ho cercato di verificare l’ipotesi della presenza di un fenomeno artistico riconducibile all’idea di ‘arte femminista’ o comunque di produzione artistica femminile, legata, più o meno consapevolmente, alle istanze del movimento di liberazione delle donne, sviluppatosi in maniera consistente proprio nel corso degli anni Settanta, per poi defluire negli anni Ottanta.

In questo contesto lo specifico riferimento a Roma, espresso nel titolo del
volume, è stato motivato in primo luogo dal fatto che il materiale da
me raccolto, a partire dalle testimonianze, riguarda in larga parte vicende avvenute nella capitale; la scelta di Roma come campione
geografico di indagine è inoltre stata sollecitata dal fatto che la capitale fu in quegli anni e nel decennio precedente centro propulsore della ricerca artistica e sede fondamentale degli sviluppi della lotta e del pensiero femminista, a partire dalla fondazione di Rivolta femminile su iniziativa di {{Carla Lonzi }} e {{Carla Accardi}}, critica d’arte la prima e artista la seconda.

Tuttavia gli esiti della ricerca, lungi dall’essere esclusivamente interni al perimetro romano, mi sembrano estendibili anche al contesto nazionale, anche perché Roma non ebbe uno specifico artistico femminista rispetto alle altre esperienze italiane, ma ogni artista visse il femminismo in maniera piuttosto autonoma, indipendentemente dal luogo in cui viveva.
Se il contesto italiano non vide una stagione di arte femminista come fenomeno compatto e riconoscibile sotto una denominazione comune, rimane un dato certo che in quel decennio, rispetto al periodo precedente, emersero in maniera massiccia molte figure di artiste.
Mi pare inoppugnabile il fatto che questa novità sia stata in certa misura sollecitata dal femminismo, che permise un sostanziale ampliamento delle prospettive femminili, contribuendo all’ingresso a tutto campo delle donne negli ambiti più disparati, compreso quello dell’arte, e soprattutto proponendo un modello di donna differente, dichiarando pubblicamente il sesso femminile in posizione soggettiva e non più oggettiva, novità assoluta.
In effetti, prima ancora che a livello politico, nel raggiungimento della parità di diritti e nelle lotte a favore dell’aborto e del divorzio, il movimento produsse cambiamento a livello di percezione di sé (da parte delle donne) e delle proprie possibilità.

La presa di coscienza della propria condizione di oppresse e l’auto-­‐‐riconoscimento come soggetti attivi, supportati dall’idea dell’aggregazione di genere, del separatismo come metodo indispensabile alla liberazione, spinsero molte donne ad avvicinarsi a campi ancora scarsamente frequentati.
L’idea di unione tra donne, alla base del femminismo, deve aver funzionato come potente supporto concreto, ma anche psicologico, stimolando molte alla ricerca di una collocazione sociale nuova, estranea dal ruolo femminile tradizionale.

Lungi dal voler rendere il femminismo un’etichetta da applicare meccanicamente all’opera delle artiste che abbiano avuto una qualche frequentazione con il movimento, nell’analisi degli esiti artistici ho cercato di utilizzare con molta cautela il termine ‘arte femminista’, favorendo piuttosto l’idea di ‘clima femminista’, come atmosfera di influenza di determinati sviluppi estetici.
Data la diversità dei percorsi femministi intrapresi da ciascuna artista e la molteplicità degli orientamenti del movimento, è necessario precisare che l’esperienza politica delle figure di artiste prese in analisi deve essere letta in maniera abbastanza autonoma.

In linea generale, quando si parla di ‘femminismo militante’ o di
‘militanza attiva’, si vuole intendere quella parte del movimento che
ha adottato la manifestazione di piazza come metodo di lotta, prassi
alla quale molte formazioni furono estranee, a partire da Rivolta femminile.
Un punto di riferimento basilare per questa parte del movimento è stato individuato nella rivista “Effe”, principale organo di diffusione del pensiero femminista e di coordinamento della lotta politica sul territorio nazionale.

A conclusione dell’introduzione mi permetto una breve nota autobiografica e alcuni ringraziamenti. Il femminismo l’ho vissuto in casa fin da bambina con mia madre Anna Rita, comunista e femminista, alla quale devo la mia sensibilità politica e di donna.
Dall’autunno del 2010, data in cui ho cominciato le ricerche, ad oggi,
ho visto trasformarsi la mia tesi di laurea in un libro. Il volume è
dedicato a mia madre, a cui avrebbe fatto molto piacere sapere che la figlia ha scritto un libro sul femminismo.
Rivolgo i miei più sentiti ringraziamenti alla Commissione del Premio Franca Pieroni Bortolotti 2012, alla Società Italiana delle Storiche, al Consiglio Regionale della Toscana e alla Commissione regionale per le pari opportunità della Toscana, per avermi offerto questa straordinaria occasione.
La notizia della pubblicazione mi ha raggiunta mentre svolgevo in Germania un tirocinio lavorativo in un museo del Nordrhein-­‐‐Westfalen.
Episodi di questo genere, purtroppo tanto rari, fanno desiderare a chi è all’estero di tornare in Italia, danno la conferma – in un momento storico così complicato – che il nostro studio ha un valore e sollecitano l’idea che in questo Paese esistano ancora dei margini di movimento. È un grande senso di speranza quello che mi viene concesso, di cui sarò sempre infinitamente grata.

Ringrazio il mio relatore, Claudio Zambianchi e la mia correlatrice, Laura Iamurri, per l’entusiasmo con cui all’epoca accolsero la mia ricerca, e oggi per l’amicizia dimostratami. Alle artiste e alla storica dell’arte che mi hanno rilasciato le testimonianze – Suzanne Santoro,
Cloti Ricciardi, Simona Weller, Ida Gerosa e Silvia Bordini – sono
infinitamente grata, per la simpatia e la generosità con cui mi hanno
accolto nelle loro case, mettendomi a disposizione le loro eccezionali
esperienze femministe e artistiche.

Ringrazio di cuore le donne di Archivia-­‐‐Biblioteca Archivi Centri Documentazione delle Donne di Roma, in modo particolare Mila Corvino e Gabriella Nisticò.
Un ringraziamento particolarmente sentito va ad Alessia Muroni, storica dell’arte esperta in materia di donne, che la commissione Bortolotti mi ha sapientemente affiancato in qualità di tutor. Alessia mi ha messo a disposizione la sua preziosa esperienza, con lei ho lavorato con grande serenità e armonia.

Un ulteriore ringraziamento rivolgo a Chiara Palmisani, Bruno e Carlo Seravalli, Maria Teresa Palleschi, Matthias Kanka, Giulia Calace, Alice e Lucio Campoli, e alle mie nonne Delia Roncaccia e Anna Maria Scarici, per l’affetto e il fertile confronto generazionale da donna a donna.