16 marzo, nel Santuario di S. Rita a Torino: figli, nipoti, parenti tutti presenti o da lontano idealmente congiunti, si sono raccolti intorno ad Annarosa Gallesio Girola e quel funerale, alle 9 di mattina, è spontaneamente esondato dall’ambito privato, gremendo la chiesa dei sentimenti d’affetto e di dolore di chi l’ha conosciuta, rispettata e amata nella vita quotidiana, nel lavoro, nell’impegno politico e di fede, nelle sue tante passioni, tutte autentiche e generosamente vissute.
Con lei, la maggiore di sei sorelle e di un fratello gemello di mia madre, sparisce, come sempre accade nel lutto, un pezzo della vita di chi resta ma anche {{un pezzo della storia di Torino}}, delle vicende politiche e istituzionali peninsulari, del giornalismo italiano, dell’emancipazionismo, dell’associazionismo cattolico, dello Stato repubblicano quale la Costituzione traccia nella pienezza delle sue etiche e intenti.

È per me troppo difficile parlare di lei in terza persona. L’ho conosciuta prima attraverso l’osmosi familiare che di ogni nuova bambina/o fa una parte dell’insieme. Ed è stata l’amatissima zia delle visite, delle ricorrenze con l’alone però della quasi adorazione che le riservavano le sorelle per le quali è stata quasi una seconda madre, colei che con la sua ironia e le sue emozioni ne ha allietato l’esistenza e fatto fronte, ove possibile, alle difficoltà. È diventata poi una continua scoperta via via che, non da lei, venivo a conoscenza del suo attivismo nella sfera privata, giornalistica e politica.

Un’intelligenza acuta, versatile, aperta. Un’intuizione senza pari. Una di quelle rare persone che comprendono per intuizione prima che per cultura le cose, nelle sfumature, nelle delicatezze. Aveva un linguaggio perfetto e curato, come la sua scrittura. Ha scritto, in gioventù, di teatro, poesie, favole, brani che continuano a sbucare dalle memorie e dai cassetti delle sorelle. Recitava e faceva recitare tutta la famiglia nei lunghi anni bui della guerra, in casa e in parrocchia.

Il suo pensiero non temeva niente, sostenuto da un continuo desiderio d’aggiornarsi. L’ultima conversazione di un’oretta, poco prima che con l’estate cominciasse a declinare, ha riguardato la {{politica estera cinese}} rispetto ai paesi del Sud-est asiatico e la {{questione del matrimonio del clero.}} Sprofondata in un’enorme poltrona, telefonino da una parte e pila di libri e riviste dall’altra. Il mondo era il suo mondo. La gente l’aveva dentro di sè. Lei, minuta, diafana, apparentemente fragilissima era una creatura di durissimo diamante e ne aveva la purezza: trasparente, onesta, coerente, rigorosa, infaticabile, indistruttibile, disponibile, modesta, generosa. Nella complessa, sofisticata e articolata architettura della sua vita, tutto sembrava semplice, fattibile, ovvio, piano. “Da ciò che non ti piace, che ti fa male, capiscilo e stanne lontana” mi disse. Capirlo perchè ogni cosa, ogni persona va compresa, ma bisogna scegliere ciò che si vuol essere. Grazie zia. Nessuno/a, nella sua lunghissima vita, l’ha mai sentita denigrare qualcuno/a, meno che mai gli/le avversari/e politiche. Odiava il turpiloquio e deprecava l’attuale tendenza a fare politica insultando e diffamando.

Col marito, Enrico, perso da poco, ha spartito tutto. Anche lui alquanto eccezionale; un uomo che dal primo dopoguerra non solo ha condiviso gli ideali e le scelte della moglie ma si è attivamente coinvolto nell’educazione e nella cura dei figli, coniugando la vita lavorativa, di Preside, a quella degli affetti.

Quattro figli: Piermichele (è stato caporedattore di Famiglia Cristiana e del Sole 24 Ore); Edoardo (ha lasciato da poco la guida dell’Ansa torinese); Paolo (caporedattore al TG di Torino e Consigliere nazionale dell’Ordine), Carlo, architetto.

Dietro zia Annarosa, c’è sempre stato il rapporto, che non potette essere che forte e pieno, con il padre, Pier Nicola Gallesio, del quale ha ereditato sia l’inclinazione artistica che un radicale antifascismo. Nonno, antifascista della prima ora, dirigente sindacale cattolico, ferroviere, perse il lavoro per non aver voluto giurare al Duce e rimase sempre in collegamento con gli ambienti piemontesi antifascisti, dalla prima ora alla Resistenza. Nonno morì alla vigilia della Liberazione per una malattia ai polmoni che gli scoppiò dopo un pestaggio subìto mentre percorreva, da solo, una strada di sera. Era rimasto a lungo svenuto nella neve.

Nella soffitta torinese in cui sono nata, davanti al monumento di Pietro Micca, {{le “storie” della sera}} di nonna Luigina e zia Lorenza, mia madre lavorava, erano tutte sulla Resistenza e di come in tante avessero sottratto ai tedeschi e ai fascisti “le prede”, gente perseguitata per fede e per etnìa, in un via vai di sporte della spesa, vasi da fiori più colmi di documenti clandestini che di terra, finte “vecchiette” e vecchiette autentiche ma falsamente ingenue, giovani ragazze che pedalavano in bicicletta, canticchiando e rischiando, per portare messaggi, cibo e armi per tenere in collegamento città, pianura e montagne. E zia Annarosa ad organizzare, a scrivere, a parlare, a costruire quell’Italia dignitosa e libera che mi stava aspettando, bellissima nei loro sogni e nel desiderio di felicità per me e per tutte e tutti. La dimensione collettiva non mancava mai.

Con Anna Rosa Gallesio Girola scompare {{un’antifascista}} che non ha mai abbandonato i suoi ideali; una componente del Comitato di liberazione nazionale del Piemonte nel quale rappresentava sia la Democrazia Cristiana che i Gruppi di Difesa della Donna, da lei co-fondati; l’ultima componente della Giunta provinciale subalpina insediata dal Cln dopo la Liberazione; la prima donna eletta nel Consiglio Provinciale di Torino e Assessora, dal ’51, per due decenni, nei quali si è spesa anche in nome del suo sentire come peso insopportabile l’ingiustizia sociale.

La scelta istituzionale non le fu facile perché zia era da sempre iscritta {{nell’Azione Cattolica}} e propagandista della Gioventù Femminile e l’Azione Cattolica non vedeva tanto di buon occhio il passaggio delle sue componenti alla carriera politica. Zia seppe fare anche questo, tenere insieme tutto ciò che amava e imporre, con calma e determinazione, la sua unicità.

Entrata giovanissima, durante la guerra, nella redazione torinese del quotidiano milanese{{ “L’Italia”,}} lavorò poi per il {{“Popolo Nuovo”}} (’46-’58), la “{{Gazzetta del Popolo}}” e, dal ’61 al ’77, a “La Stampa” specializzandosi nelle cronache sindacali, politicamente aderente alla corrente sindacalista della Dc.

Tra le prime giornaliste italiane, fu a Torino la prima {{“cronista”,}} lavoro che continuò sempre a entusiasmarla. Nelle giornate in cui Torino si liberò ed entrarono gli Americani, intervistò i comandanti partigiani creando una fonte importante, professionalmente certa. Le sue due passioni, giornalismo e politica, era d’uguale portata ma lei spesso si autodefiniva “una giornalista prestata alla politica”.

Fu la seconda a iscriversi alla {{Federazione Nazionale della Stampa}} che con lei ha perso la sua {{Decana}}, come {{l’Associazione dei partigiani cristiani “Giorgio Gatto”}} hanno perso la loro Presidente onoraria e {{l’Associazione Stampa Subalpina}} una delle più amate componenti, più volte eletta Consigliera.

Attiva nel {{Movimento Femminile della Dc}}, zia Annarosa ha lasciato un segno nelle battaglie per l’emancipazione e la parità delle donne specie per quelle legate alla parità salariale e all’accesso ai concorsi pubblici. Lei si è sempre sentita “pari”. Era piena di dignità. Se una donna c’è stata che abbia cercato di realizzare e ci sia riuscita, le proprie aspirazioni e i talenti e che abbia intrecciato al meglio la sfera privata e quella pubblica, quella della vita civile e quella della vita istituzionale, quella della religiosità, quella della consapevolezza, questa è stata lei.

Quella chiesa strapiena, presenti tutti e tutte, i suoi vari mondi, lo dimostra. Lo dimostra il gesto gentile di commemorarla nell’aula del Consiglio provinciale. Lo dimostrano le continue manifestazioni di affetto che ricevono i figli, le nuore e le nipoti.

Lascia a tutte e a tutti noi che l’amavamo un senso profondo di mancanza ma anche un bellissimo esempio e un carissimo ricordo.

Colgo l’occasione, in queste righe, d’accomunare la mia associazione, “il Paese delle donne”, al cordoglio.