Olga, Tanja, Lamara e poi Elvira, Elzada, Ida, Zemina, Ajna, Lejla, Rada, Melita, Chaimaa, Eva sono donne, di età diverse, con le quali in questi anni ho condiviso i pensieri più complessi, i momenti più difficili, le scritture più ardue; oltre a speranze, lutti, allegrie, discorsi sull’amore. Con loro e con le mie amiche ‘storiche’, quelle che da anni e anni fanno luce nella mia vita. {{Nessuna}} delle donne delle quali ho fatto il nome – tranne Eva, che è sinta – {{è nata in Italia}}; ci sono arrivate trascinate dalle guerre, dai flussi migratori, dalle difficili disgregazioni degli stati multinazionali nati e morti nel Novecento. Sono entrate nella mia vita e restano a farne parte, per fortuna.{{ Donne provenienti da altri luoghi del mondo}} sono, a vario titolo, nella vita di molte di noi; con loro viviamo, pensiamo, studiamo; spesso ci aiutiamo a invecchiare, a crescere figli, a morire. Ma, tranne rari casi, {{non sono con noi nei momenti della partecipazione alla vita politica,}} dell’ ‘occupazione’ della scena pubblica. Nemmeno l’8 marzo, almeno a Mantova. E, come a Mantova, nella maggior parte delle città italiane.

E questo da tempo mi mette profondamente a disagio perché non è imputabile a nessun ‘potere maschile’; dipende solo ed esclusivamente da noi, da un vuoto nella percezione di quel soggetto politico complesso che siamo oggi noi donne. {{Come gli uomini,}} tranne poche eccezioni, ci siamo abituate a pensare all’interno di un universo culturale e linguistico autoreferenziale, quello della cultura maggioritaria. Uno sguardo più attento alla ‘storia di genere’ ci aiuterebbe ad allargare i nostri orizzonti.

Per una volta è una voce maschile, quella di un grande storico – americanista e studioso delle fonti orali – come {{Alessandro Portelli }} ad aprire il mio sguardo e a dare conforto al disagio mio e di altre, credo; a commuovermi. Riportiamo su questa Newsletter di Articolo3 il suo scritto,[ 8 marzo, i nomi della scintilla ->http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20110308/pagina/01/pezzo/298683/](il Manifesto, 8 marzo 2011, […]). Che cerca, risalendo ai nomi, le provenienze delle 145 operaie morte nell’incendio della Triangle Shirtwaist Factory di New York, nel marzo del 1911. Immigrate, donne, operaie: “tre volte senza diritti”. E, per di più, spesso minorenni. Molte erano italiane, alcune ispaniche. A colpirmi è anche il fatto che ben 102 erano ebree, proletarie provenienti dagli shtetl dell’Europa orientale: spesso in fuga, oltre che dalla povertà, dall’antisemitismo.

{{La storia dell’8 marzo }} dovrebbe costringerci a un pensiero plurale che infranga pregiudizi di ogni tipo; dovrebbe indurci a promuovere pratiche di ascolto reciproco per costruire insieme una nostra forza che nessuno possa usare per scopi minori. Se nelle ‘nostre’ iniziative non coinvolgiamo le cittadine migranti, le concittadine sinte e rom, le rifugiate, quelle che appartengono alle minoranze religiose e, in generale, tutte quelle che fanno parte di qualche minoranza discriminata, se non sappiamo dare voce a una molteplicità di racconti diversi – sul lavoro, sull’amore, sulla nascita, sull’infanzia, sulla malattia, sulla nostalgia – , se non riusciamo a fare questo allora qualcosa non va nel nostro modo di prendere parola e di porgere ascolto. Cioè nel{{ nostro senso politico della vita.}}

P.S.{Con piacere segnaliamo che a Brescia, a Varese e a Milano, per portare alcuni esempi, ci sono gruppi di donne che hanno cominciato a ragionare nella prospettiva di incontro con le donne migranti.
MB}