17 gennaio 1993. Nelle fredde strade di Ginevra sfilava un nutrito corteo in direzione della sede dell’Onu. Era un’iniziativa del Comitato Golfo e delle Donne per la Pace. Si “celebrava” il secondo anniversario della guerra del Golfo. In tutto il mondo si organizzavano manifestazioni contro l’embargo all’Iraq.Ma infuriava anche la guerra in ex Jugoslavia, e cinquanta gruppi di donne di tutta Europa avevano firmato un ampio e argomentato {{documento per chiedere all’Onu di riconoscere gli stupri come crimini di guerra}}.
_ Non si trattava però solo di una firma. C’erano incontri e relazioni con le donne delle repubbliche ex jugoslave, un vero e proprio lavoro contro la guerra che dava sostanza alla solidarietà.

L’appello, partito dalle Donne in Nero di Belgrado, era stato ripreso dalle Donne per la Pace di Milano che nel giro di poco tempo raccolsero le adesioni di moltissime associazioni di donne italiane ed europee, dalla Francia all’Inghilterra, dalla Svizzera alla Germania, e da tutta l’Italia.

{{A Ginevra eravamo tante}}. Per presentare il documento all’Onu demmo la parola a Suphija, bosniaca musulmana, un’insegnante, una pacifista, autrice di poesie. Una voce forte in nome delle donne assenti, quelle che avevano subito violenza e che non avevano più parole, come del resto mai ebbero parola durante il conflitto jugoslavo quelle persone di ogni nazionalità che erano contrarie alla guerra e alla violenza. Persone che divennero straniere rispetto a una nazionalità presa a pretesto della guerra.

Confesso che quel 17 gennaio a Ginevra fui sommersa dalle emozioni. {{Sentivo che quello era un agire politico nato da una vera condivisione}}, da una riflessione amara e profonda sull’inscindibile nesso fra patriarcato, guerra e violenza. Il luogo difficile della guerra jugoslava, come altri luoghi difficili di altre guerre nel mondo, si trasformava nell’esperienza diretta di un millenario ordine simbolico fondato sull’esclusione del femminile e delle sue tragiche conseguenze.
_ Ma si trasformava anche nel crogiolo alchemico di un possibile cambiamento, nato dal camminare insieme e dal riconoscersi in un’altra visione del mondo.

In quegli anni davvero le donne riuscirono a lavorare insieme, nel pensiero e nelle pratiche. C’era un orizzonte, davanti a noi, che teneva insieme le differenze senza cancellarle.

Capire che ognuna di noi è diversamente posta su questa terra – al nord o al sud, nel colore della pelle o nei privilegi di nascita – significa certo partire correttamente da sé, dal proprio territorio interiore ed esteriore, e quindi dalle disparità, ma non esclude affatto di poter condividere il rifiuto verso le catene di un mondo costruito da un solo genere, e il desiderio di trasformarlo.

Ora, {{come possiamo accettare che questo tardivo riconoscimento dell’Onu rispetto agli stupri sia considerato un successo “patrocinato” (il lessico maschile in questo caso funziona) da donne come Condoleezza Rice?}} Una donna complice di uno dei peggiori governi Usa. Una donna ammanicata con le lobby del petrolio. Una donna responsabile di guerre e torture.

{{Nascere donna non basta}}. In questo caso, direi che è un’aggravante. L’unico percorso compiuto da Rice è quello che conduce al potere assoluto e gerarchico, il potere patriarcale che genera violenza, ingiustizia e guerra. In primis, guerra contro le donne e contro i loro corpi, in guerra e in “pace” (pace per modo di dire, naturalmente).

La strada perché gli stupri di guerra e di pace non accadano più è purtroppo lunghissima, e non si può separare dal discorso sul potere patriarcale, sull’ordine simbolico e sul rapporto fra i sessi. Insomma, da un’autentica rivoluzione nell’immaginario e nella realtà.

Certo, il riconoscimento dell’Onu simbolicamente è un passo importante, ma sono state e saranno le lotte delle donne, insieme agli uomini più consapevoli, a cambiare davvero le cose, a partire anche da quel freddo 17 gennaio 1993.