Ad Elena, 25 anni. Che è morta qualche giorno fa, a Rimini, dopo una breve agonia, a causa di un violentissimo pugno infertole dal fidanzato. Però. Però la morte di Elena non ci riguarda. Era rumena. E qualche quotidiano si è peritato di precisare che il fidanzato assassino è “un connazionale”.Cosa si può dire, scrivere, ma anche pensare, in una settimana come questa. Che finisce dritta dritta nell’8 marzo, in una celebrazione che è comunque, val la pena di ricordarlo, una commemorazione di morte.

Partiamo da New York, e da quelle operaie della fabbrica Cotton,bruciate vive l’8 marzo del 1908 perché le porte furono bloccate dall’esterno su ordine del loro datore di lavoro. E arriviamo, attraverso le nazioni e i secoli, in un moto vorticoso ma circolare, che sembra condurci tutte le volte nello stesso punto, all’ultima in ordine di tempo.

Ad Elena, 25 anni.
_ Che è morta qualche giorno fa, a Rimini, dopo una breve agonia, a causa di un violentissimo pugno infertole dal fidanzato. Però. Però la morte di Elena non ci riguarda. Era rumena. E qualche quotidiano si è peritato di precisare che il fidanzato assassino è “un connazionale”.
_ Ah, beh, allora siamo a posto. Che ce ne importa. La morte e la violenza riguardano “gli altri”. Gli stranieri, quelli per definizione sporchi, brutti e cattivi.

Quasi come se fosse un costume nazionale, rumeno o albanese o marocchino che sia, quello di uccidere le donne.
_ Ma, attenzione,NON italiano. Mai italiano. Nell’immaginario collettivo nazionale, le donne italiane vengono violentate e uccise esclusivamente da inesistenti stranieri.

Ecco la notizia, che per la verità da tempo non dovrebbe più essere tale: le donne italiane, così come le donne degli altri paesi del mondo, vengono violentate e uccise per lo più dai loro compagni, padri, fratelli, amici… rumeni, marocchini,italiani o marziani che siano.

Ma siamo sempre tutti così desiderosi di spiegazioni facili, di rassicurazioni, di non doverci porre domande scomode e ansiogene, che ci rifugiamo in un’evidente falsità. Sarah Scazzi e il contesto familiare di Avetrana, ad esempio, sono diventati un’occasione di spettacolo, di voyeurismo, di protagonismi meschini. Poco altro. E sicuramente, non di riflessione.

Ma chiediamoci, una volta di più, che cosa significhi, per una donna, essere violentata, picchiata, ferita e uccisa da chi ama.
_ Vuol dire sentirsi totalmente indifesa, tradita. persa.
_ Vuol dire restare senza alcun rifugio possibile, perché il rifugio è lui, il carnefice: perché il rifugio improvvisamente ed orribilmente si volge nel suo contrario, e diviene un’arena, un Colosseo domestico in cui si è prede disarmate.
_ Vuol dire dover affrontare in una volta sola la paura,il dolore fisico e morale, l’abbandono, la perdita dell’amore, il fallimento del progetto al quale si tiene forse più che ad ogni altro.

Parliamo di questo,interroghiamoci su questo. E non permettiamo più a nessuno di usare ancora una volta i nostri corpi feriti o uccisi per fare facile propaganda contro lo straniero di turno, per vendere orrendi siparietti televisivi, o merci rimaste invendute nei magazzini, semplificando e banalizzando una sofferenza che non è banale, perche è incisa nella nostra carne.

Perché la violenza contro le donne non è solo quell’ultimo irrimediabile momento. Ha origini lontane, è un’idra dalle mille teste, e ogni testa deve essere tagliata: da quella della mercificazione del corpo della donna,a quella della strumentalizzazione partitica del fenomeno, a quella della comunicazione sessista in tutte le sue forme, fino a quella di leggi e provvedimenti che mortificano e limitano la nostra libertà di scelta e la nostra possibilità di trovare lavoro.

Addio, Elena.
E non diciamo addio ad Elena “la rumena”. Diciamo addio e piangiamo Elena, una di noi, Elena, la donna.