Gabriel Sandler, 4 anni; Arieh Sandler, 5 anni; Myriam Monsonego, 7 anni; Jonathan Sandler, 30 anni: sono francesi e sono stati uccisi a Tolosa, in Francia. Un uomo li ha massacrati davanti e dentro la scuola ebraica. Perché erano ebrei. I loro nomi e i loro volti vanno aggiunti a quelli dei milioni di bambini, di donne e di uomini che in Europa sono stati uccisi in nome dell’antisemitismo. Il responsabile di questo atto criminale è un giovane francese di origine algerina che si dichiara appartenente a gruppi dell’estremismo islamista; non ci sentiamo di liquidarlo come un folle: {{le ragioni del male antisemita}}, come le ragioni del razzismo xenofobo, vanno indagate più in profondità, vanno cercate nelle {{genealogie della cultura e della politica in cui siamo immersi,}} senza fare sconti a nessuno, soprattutto a noi stessi.

Antisemitismo, antigiudaismo, antisionismo si mescolano trasversalmente e sfociano in atti di violenza atroce, come quelli di Tolosa, o nelle liste di proscrizione di ebrei e di amici degli ebrei che infestano i siti di delirante fanatismo cattolico come Holywar o di suprematismo bianco come Stormfront. {{Come combattere le culture dell’odio?}}

Lunedì sera, a poche ore dall’attacco omicida, Gad Lerner ha intervistato per {L’Infedele}{{ Sonia Brunetti Luzzati}}, preside della scuola ebraica di Torino. Cosa avrebbe detto ai bambini della sua scuola la mattina successiva? Come avrebbe spiegato questa tragedia? Prima di tutto li ascolterò, ha risposto con infinita pacatezza Sonia; poi, insieme, ragioneremo cercando risposte ai loro interrogativi.

La pratica del dialogo, “{{la passione per le cose difficili}}”, il conforto del ragionamento come argine all’insensatezza e alla perversione della razionalità presunta degli assassini. {{La pedagogia ebraica ha insegnato questo}}, l’ha insegnato anche a noi, maestre e maestri non ebrei cresciuti amando le scuole libertarie ispirate al pensiero di {{Rudolf Steiner}} (1861-1925, filosofo e pedagogista austriaco); le parole di {{Martin Buber}} (1878-1965, filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano) e il principio della relazione come fondamento; la grandezza di{{ Janusz Korczak}} (1878-1942, pedagogo, scrittore e medico polacco) che ha accompagnato ad Auschwitz gli orfani del ghetto di Varsavia senza smettere mai di ascoltare i loro pensieri, di lasciare emergere le loro paure e le loro emozioni: “la dolorosa serietà dei loro diari. Rispondendo alle loro confidenze li faccio partecipi dei miei pensieri, come tra pari”.

Abbiamo imparato a fare scuola sui testi di {{Clotilde Pontecorvo}} (1937, docente di psicologia dell’educazione e direttrice di ricerca al CNR) che ci ha insegnato che “{{discutendo si impara}}”.

Sonia Brunetti ha anche raccontato del suo incontro, anni fa, con un gruppo di ragazzi che si dichiaravano neonazisti, in una scuola della periferia di Torino: la discussione, i giochi di ruolo, e poi di nuovo la discussione; e l’incontro fra un essere umano e un essere umano, di una storia con una storia, fino a far scaturire il bisogno, dichiarato dalle due giovani leader naziskin, di vederla ancora, di continuare il dialogo. È solo questo complesso di relazione e conoscenza, di narrazione e ascolto che induce quella che {{Jerome Bruner}} (1915, psicologo statunitense) chiama “{{la folata della crisi}}”, che rende gestibili i problemi. Perché solo dalla crisi nasce la trasformazione del pensiero.

Quanti insegnanti, quanti adulti sono convinti che sia necessario discutere di tutto, con questa passione, anche con i ragazzi di origine straniera che vivono nelle nostre periferie, che incontriamo nelle nostre scuole? Sono quelli che più spesso vengono ‘lasciati a casa’ quando le classi vanno in viaggio ad Auschwitz; sono quelli che troppo spesso stanno zitti quando gli esperti vanno nelle scuole e parlano di un genocidio europeo, la Shoah, che solo in apparenza nulla ha a che fare con i crimini del colonialismo che spesso segnano le loro memorie familiari. Insegnanti ed esperti si rendono conto che nel loro silenzio c’è a volte una dose di rancore che può, se abbandonato a se stesso, alimentare un immaginario antisemita?

Contro gli adulti antisemiti e razzisti, che fanno apologia di un pensiero che implica l’eliminazione di ogni alterità, è giusto chiedere alla legge di intervenire.

Ma con i giovani, le comunità ebraiche ce lo hanno insegnato continuamente in questi anni, occorre {{il confronto}}; occorre lavorare su quel nocciolo oscuro e spesso terribilmente fragile che genera la personalità autoritaria, la violenza antisemita, il razzismo. “È doveroso che si distolgano gli uomini dal colpire verso l’esterno in assenza di qualsiasi riflessione su se stessi. L’educazione ha un senso, solo quando è un’educazione all’auto-riflessione critica”: sono parole di {{Theodor Adorno}} (1903-1969, filosofo tedesco), in {L’educazione dopo Auschwitz } (1969). Insieme all’infinita pietà per Gabriel, Arieh, Myriam, Jonathan, provo {{sdegno e paura}} nel vedere colpita una scuola ebraica, simbolo di una tradizione educativa che ha posto al centro il dialogo; simbolo di una storia del pensiero pedagogico che ha innervato anche la mia storia e il mio pensiero.