Il mio discorso mette anche al centro l’interesse delle donne a farsi carico della qualità della democrazia che, al pari dei diritti del lavoro, non è affatto questione di poco momento, quindi trascurabile, a livello materiale e simbolico.Secondo notizie di stampa, immediatamente dopo la conferma a Presidente della CDU la Cancelliera tedesca Angela Merkel si è rivolta agli imprenditori del suo Paese dicendo che la sua pazienza è esaurita, che non vi sono motivi per cui le donne che conseguono lauree in maggior numero e con voti più elevati non siano presenti in modo adeguato nei consigli di amministrazione e in tutte le strutture dirigenziali e che è quindi giunto il tempo di sanare la situazione, modificandola radicalmente al più presto.

Sembra un ragionamento di comune buon senso, potrebbe essere il discorso di un’autorità antitrust, ma è pronunciato dalla massima autorità politica di un Paese che forse, attualmente, ha molti numeri per non piacerci ma che tuttavia rappresenta il motore dell’Unione europea.

Sottende anche la denuncia di una situazione sbagliata, antimeritocratica, sessista, che richiede autoriforma oppure adeguamento forzato a canoni di maggiore giustizia.
Non sembra possibile immaginare una scena analoga sul teatro italiano.

Si può partire anche da qui, dalle considerazioni suggerite dal livello europeo se si vuole, come io intendo fare, prendere sul serio alcune argomentazioni critiche che le giovani femministe di ”[Diversamente occupate->http://diversamenteoccupate.blogspot.it/]” hanno rivolto ai lavori di Paestum (v. Via Dogana dicembre 2012) con particolare, ma non esclusivo riferimento al confronto in assemblea e nell’ambito del gruppo n. 9 cui hanno partecipato.

La loro critica muove dalla considerazione che là si sia registrato “un corto circuito nella circolazione/condivisione di saperi e pratiche che vede le donne più grandi sicure della propria presa sull’esperienza di donne più giovani, con il rischio di una sostanziale entropia e cecità sul presente.”
Le questioni che fanno problema mi paiono sostanzialmente due, entrambe centrali nel dibattito odierno, quindi da tenersi in attenta considerazione: quella della “politica istituzionale in quanto luogo dove si prendono le decisioni” e quella del lavoro (che non c’è).

Sul primo tema le giovani femministe lamentano una impostazione troppo incline ad assumere la centralità della rappresentanza mentre, secondo loro, per le donne “{contare}” “{non significa avere a che fare con gli spazi decisionali del potere, perché il cambiamento alle condizioni del presente non può nascere più nei luoghi istituzionali della politica, ma solo dalla spinta che viene da ciò che ne è fuori, dai luoghi che viviamo ogni giorno…..Se la rappresentanza è in crisi, ne va colta l’opportunità spostandosi dal piano della politica istituzionale – in quanto luogo dove si prendono le decisioni- al piano della politica diffusa e agita dal basso: non uno per tutti per mezzo della delega, ma ciascuno e ciascuna nella mediazione delle relazioni politiche}”.

Quanto al lavoro, esso è al centro della loro riflessione “non solo perché non c’è, è precario o somiglia molto allo sfruttamento, ma perché a queste condizioni annienta il resto: i corpi, i desideri, i tempi, gli spazi, le speranze, la “politica” (quindi)….la nostra sessualità non è per niente portata al lavoro, semmai annientata da questo”.
Il dualismo fra luoghi della politica che sovrintendono al governo della polis e luoghi dell’azione diretta come cittadinanza attiva non rappresenta, secondo me, un’idea nuova, ma ricalca, al contrario, l’errore per così dire storico del femminismo italiano che, malgrado intuizioni brillanti e pratiche fortemente innovative, essendosi autolimitato al territorio dell’intervento “di base” senza tensioni verso la modifica della sfera decisionale del potere (esclusivamente maschile, anche in virtù di autoesclusione) nulla ha potuto contro la presa del comando patriarcale, ancora salda sul piano della realtà, poiché riesce a rendere costantemente precari l’autodeterminazione e il diritto all’habeas corpus per le donne.

Sono, quindi, del parere che ”la rottura dell’ordine patriarcale” (ivi) non sia una situazione oggi pienamente conquistata, ma che, al contrario, necessiti che si dia corso, con grande urgenza, a un circuito virtuoso per cui le acquisizioni brillantemente innovative della pratica politica femminista ci autorizzino a usare il sapere conseguito nei luoghi dell’intervento quotidiano di base come una leva per raggiungere, invadere e stravolgere la sfera del governo della polis, con ricadute immediate di modificazione radicale per l’esistenza di tutte/i.

Ripeto: il dualismo tra sfera di base e sfera della politica istituzionale è nella nostra tradizione, non è una novità e non ha prodotto esiti positivi per nessuno in nessuna sfera del vivere associato. E’ un dato di comune esperienza.
L’unica speranza sta nel cambiamento, nella sinergia positiva fra i due piani, ed è per lo meno curioso che il femminismo ritenga di non avere alcun ruolo da svolgere, mentre è proprio nel giocare al livello della decisione, nel connettere i due livelli che si potrebbero rendere efficaci e durevoli le acquisizioni della politica diffusa e delle mediazioni ivi conseguite attraverso una rivisitazione/ristrutturazione della delega dando vita a una democrazia autenticamente partecipata.

Un argomento, la democrazia, che non esula dagli interessi delle donne perché la sua assenza stritola qualsiasi pratica politica di base e qualsiasi libertà individuale che non sia quella concessa dai potenti.

Secondo me, il discorso delle giovani femministe omette totalmente di considerare l’aspetto per nulla secondario del monopolio maschile della sfera pubblica che genera potestà decisionale sui destini della polis lasciati in esclusiva a un solo sesso. Anzi, il ragionamento incappa in un equivoco (anch’esso non nuovo) quando volge lo sguardo all’esperienza di femministe che, partecipando ai “luoghi di potere” (?), non potrebbero esibire alcun cambiamento visibile nella sfera pubblica. Specialmente in Italia le cose sono andate diversamente.

Le esperienze cui possiamo riferirci sono quelle di femministe cooptate in dosi men che omeopatiche dagli apparati del monopolio maschile in luoghi apparentemente di potere, per loro (conseguentemente anche per noi) luoghi di frustrazione a causa degli evidenti ostacoli frapposti a qualsiasi modificazione minimamente significativa.
Le regole del gioco che le vincolavano erano assai strette e la subalternità ai padroni del gioco era la premessa non tanto sottociuta della loro partecipazione a quel gioco.
Quindi, costi pagati e vantaggi eventualmente goduti si collocano proprio nella sfera di quel potere che richiede oggi più che mai di essere sovvertito.
Mi pare evidente che nessuna ipotesi di pratica radicale possa conseguire dal confronto che si colloca sul piano dell’esistente o del già vissuto, rebus sic stantibus.
In presenza del monolite del potere maschile escludente/includente la mia proposta è, come ho già detto (v. “La pretesa in più e la democrazia”), quella di tentare di sgretolarlo attivando una rete di relazioni orizzontali fra donne consapevoli del pensiero e della pratica femminista, che si costituiscano quali agenti di una politica multilivello.

In altre parole, investire tutti i luoghi della decisione politica con la pratica guadagnata “al piano della politica diffusa e agita dal basso” costituisce non una contraddizione, ma il cuore di questo schema, e prevede, però, una sinergia che frantuma l’esistente, non già un blocco, un’autolimitazione che lo conserva nelle sue attuali espressioni di potere.
Se la politica dal basso non investe il potere per modificarne completamente ogni espressione e decisione, mi chiedo a che valga.

Il mio discorso mette anche al centro l’interesse delle donne a farsi carico della qualità della democrazia che, al pari dei diritti del lavoro, non è affatto questione di poco momento, quindi trascurabile, a livello materiale e simbolico. Secondo me, il contesto può essere modificato attraverso apporti molteplici radicati nel pensiero critico e nella pratica difforme dell’altra della cittadinanza; l’orto concluso del progetto condiviso fra i soli consenzienti, l’appartenenza a gruppi fusionali producono anch’essi entropia.

Porte e finestre devono essere spalancate sul mondo in tutta la sua orizzontalità e verticalità, se si vuole dare corso a un diverso ordine del discorso, della cultura, del lavoro, della politica.
Si tratta, quindi, non di sottovalutare la democrazia ma di modificarne radicalmente tutti i processi decisionali, di rovesciare la presente qualità monopolistica maschile attraverso un conflitto di sesso radicato nel conflitto sociale.
Due conflitti contestuali che vanno articolati in uno snodo virtuoso, non sottaciuti come mi pare accada troppo di frequente al femminismo.

Questa pratica bidirezionale (orizzontale e verticale) tesa alla destrutturazione e ristrutturazione dell’esistente non può neppure sottovalutare la demolizione del complesso apparato garantista, di attuazione costituzionale, che promuoveva nel Novecento i diritti dei lavoratori e, formalmente, delle lavoratrici.

La divisione sessista del lavoro (per il mercato e per la famiglia), le discriminazioni de facto sempre presenti nel lavoro produttivo, non devono indurci a sottovalutare l’importanza di un sistema di regole la cui cancellazione ha prodotto, negli ultimi venti anni, condizioni di annientamento nello sfruttamento che le giovani donne patiscono insieme a tutti gli altri precari, e che bene descrivono nel loro intervento.

Anche qui, il sistema deve essere modificato, l’esperienza femminile del lavoro, sempre tenuta al margine, deve essere messa al centro per incidere profondamente sulle regole, ma la garanzia di quelle regole non è concepibile che venga semplicemente rimossa per tutte e tutti.
Si accompagna a questa un’altra considerazione, particolarmente importante in un periodo di crisi e di scarsità di opportunità lavorative, soprattutto per le donne: la necessità della erogazione anche in Italia di un basic income, qualificabile come fattore di “redistribuzione della dignità” (M R Marella in {“Oltre il pubblico e il privato}”).
Anche di questo si è parlato (non molto, purtroppo) nelle assemblee e in alcuni gruppi a Paestum.

Un istituto che si vuole incondizionato e universalistico, una ricerca di eguaglianza nella pari dignità di ogni essere umano cui deve essere garantito un tenore di vita dignitoso. Favorevole in particolare alle donne perché esse sono maggiormente disoccupate, inoccupate, sotto qualificate e sottopagate, anche se dotate di laurea e di master, quando presenti nel mercato del lavoro.
Favorevole alla acquisizione di un autentico diritto di cittadinanza che non esiste per chi non abbia assicurata l’indipendenza economica, indipendenza per le donne assai problematica, in particolare nel tempo presente. E’ una provvidenza che permette alle donne di considerarsi cittadine a pieno titolo anche perché viene detronizzato il lavoro per il mercato che cessa di essere l’unica cosa che conta ai fini della piena cittadinanza. (C.Pateman “{Freedom and democracy}”).

Questo concetto risuona anche alle nostre orecchie di italiane, basta considerare gli art. 1 e 37 della Costituzione repubblicana: un trono al lavoro maschile, uno strapuntino a quello femminile.
Desacralizzare il lavoro, meglio, relativizzare la divisione sessista del lavoro, può servire ad attenuare il modello androcentrico, il che rappresenta, secondo me, un primo passo importante nella giusta direzione.