Un dialogo si può ritenere tale se si resta nelle strettoie della dottrina religiosa, del discorso di fede, senza l’apporto di altri saperi come la sociologia, l’antropologia e non ultima, la psicologia? Su Facebook è stato postato un montaggio, dove si vede una donna musulmana alla quale il marito offre, con la sua mano, l’acqua di una fontana e, sotto, l’immagine di un contadino occidentale seguito da una donna piegata da robuste fascine di legna sulla schiena. Seguono i commenti e una ragazza convertita all’Islam scrive: “Ecco questa immagine spiega chiaramente che mentre vi fanno credere il contrario, le cose stanno così. Nella prima immagine si vede una donna Musulmana che viene trattata da regina dal marito, invece nella seconda si vede la moglie che sta lavorando per il marito, mentre lui se ne frega. Gli uomini occidentali hanno solo offeso la dignità delle donne occidentali mettendole nude su riviste ecc. Fortunatamente io come tante altre donne, convertite all’Islam, ci siamo salvate.” Un’altra convertita aggiunge:” Io x esempio ho notato che prima che indossassi il velo mi guardavano in tanti. Dopo molti musulmani stranieri se mi vedono passare abbassano letteralmente lo sguardo. Questo é rispetto.” Va per la maggiore lo spartiacque tra donne per-bene e donne-per-male : le prime, con la copertura del capo e del corpo evitano di provocare gli uomini e le seconde invece sono succubi delle voglie maschili istintuali che volentieri le denudano e usano. Le prime sono le pure, le seconde sono le impure. “Copriti!” Urlavano le madri alle bambine discole perlomeno fino agli anni settanta anche in Italia. “Arriva pura al matrimonio”, continuavano a partire dalla pubertà. E’ la dicotomia puro/impuro, sacro e contaminato che, soprattutto nelle religioni monoteiste, ha delimitato i luoghi e i corpi delle femmine. Un italiano : “comprendo il post : vuol dire che molto spesso si accusano i mussulmani di trattare male le donne, quando noi occidentali non siamo da meno. Ne abbiamo offeso la dignità sbattendole nude su riviste o calendari, ne abbiamo offeso la dignità trattandole come oggetto di piacere e infine non siamo così teneri verso di loro visto che la violenza sulle donne non è qualcosa che è poi così lontano dal nostro essere occidentali.” Sembra sia diventato necessario, nel presunto “dialogo interreligioso “, compiacere, da parte di uomini e donne occidentali e cristiani, i musulmani e le musulmane, evitando accuratamente di approfondire culturalmente comportamenti e valori. Forse risponde al timore, talvolta inconscio, di essere tacciati di mancata tolleranza e, peggio, di rifiuto. E’ appena stato pubblicato un libretto firmato da Nadia Zatti, giovane appena laureata in Scienze Politiche, con il titolo“Ho un cervello sotto il velo, il punto di vista delle donne musulmane” (ed. Cavinato, 2013) e con una prefazione di Issam Nujahed assai breve. Nella prefazione l’autore, Presidente del consiglio delle relazioni islamiche italiane, insiste sulle parole pregiudizio ed equivoco, che caratterizzerebbero il periodo che stiamo vivendo e che impedirebbero di comprendere “il vero significato del velo nell’islam”. Alcuni capitoli l’autrice li dedica a descrivere i vari tipi di velo, il velo nel Corano e il femminismo islamico. Nulla di nuovo perché ormai tanto si è scritto in proposito. Seguono i capitoli sui musulmani in Italia e la descrizione della metodologia della ricerca. Infine, da pag. 31 a pag. 55, le interviste e le conclusioni. Le donne intervistate abitano a Brescia, uno dei capoluoghi e tra le province, a maggiore intensità rispetto alle presenze straniere. Le giovani hanno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni, sposate o nubili. N. Zatti spiega la sua tesi : i pregiudizi descrivono le donne musulmane “come deboli, sottomesse e sfruttate dagli uomini, che le costringono a rimanere in casa e le obbligano a coprirsi.” Mentre “in realtà si tratta di donne forti e coraggiose pronte a combattere per i propri ideale e le proprie convinzioni, donne preparate e intelligenti che credono in quello che fanno e nella possibilità di poter dare il loro contributo al miglioramento di questo nostro Paese.” Le donne intervistate sono marocchine o egiziane. E quindi, tanto per osservare, l’autrice non ha intervistato (o potuto intervistare ?) donne della numerosa presenza pakistana nella provincia bresciana. Che le donne oggetto dell’intervista, studentesse o lavoratrici siano libere e consapevoli , emerge chiaramente dalle loro caratteristiche, ma generalizzare pare un po’ azzardato. Chi opera nei consultori o in altre istituzioni sociali e sanitarie, conosce una realtà più composita: ci sono donne musulmane, di etnie diverse originarie dell’Africa o dell’Asia, che vivono nell’ambito ristretto delle reti famigliari e, per esempio, anche dopo tanti anni ancora difficoltà con la lingua italiana. Perché non si cerca di analizzare i motivi della reclusione, di fatto, di tante donne nell’ambito privato o al massimo della comunità religiosa di provenienza? Le ragazze intervistate dalla giovane autrice del libretto, narrano la scelta del velo come “il frutto di una meditata e profonda scelta di fede, per rispondere a una richiesta che viene direttamente da Dio per mezzo del testo sacro del Corano e confermato dagli Hadith e dalla Sunna.” Il cambiamento, rispetto alle madri nate e cresciute nei territori di provenienza, si caratterizza come passaggio da un mettere il velo a causa della tradizione culturale o familiare, a una consapevolezza del suo significato profondo, ritenuto “fondamentale della loro religione del loro essere musulmane credenti”. Ed è così, se si pensa alle giovani nate o cresciute in Italia e scolarizzate fino alla scuola media superiore e oltre; o almeno a un buon numero di loro. Si evita di considerare la realtà del condizionamento familiare; che non necessariamente sia esplicito mediante proibizione o imposizione. Nel mondo culturale non influenzato dall’Illuminismo, prevale ancora la comunità sull’individuo. Nel mondo culturale islamico, più che in altri, il corpo delle donne è simbolicamente determinante per la coesione e l’identità delle comunità. Si evincono anche dalle spiegazioni dell’uso del velo come espressione di modestia, pudore, purezza e vicinanza a Dio…e come apparenza esteriore. Gli occhi degli uomini, nello spazio pubblico, non devono vedere i corpi erotici femminili proprietà degli uomini di casa. Le donne velate danno il messaggio latente dell’esistenza delle comunità integrate fino ad un certo punto, come vuole la tendenza neotradizionalista, per esempio dell’UCOII (l’associazione colturale delle comunità islamiche in Italia) che governa la maggioranza dei centri culturali islamici e delle moschee in Italia. Lo dice Cadigia, il velo: “Ha il compito di proteggerci dagli sguardi altrui, non provocandoli con il nostro corpo “. E Amina: “è altresì un segno distintivo e di differenziazione, un modo per distinguersi dalle scelte delle donne occidentali che delle volte utilizzano il corpo per raggiungere i propri obiettivi e ricavarne dei profitti “. Il libro vorrebbe aiutare a superare i reciproci pregiudizi, ma quest’ultima, superficiale e assai diffusa, convinzione sulle donne occidentali, sembra essere semplicemente avvalorata. Per ultimo è descritto l’ottimo lavoro svolto da un parroco bresciano, che è stato anche presidente della Caritas, di apertura dei locali della sua parrocchia anche agli islamici. La sua parola chiave è apertura. Don Fabio Corazzina ha fatto questa scelta …pragmatica ed ecumenica mediante anche le feste, i laboratori di dialogo, i doposcuola ecc. Un dialogo si può ritenere tale se si resta nelle strettoie della dottrina religiosa, del discorso di fede, senza l’apporto di altri saperi come la sociologia, l’antropologia e non ultima, la psicologia? dal PAESE DELLE DONNE