Quando ho saputo che era morta (nel frattempo ci eravamo di nuovo perse di vista, e non me lo sono mai perdonata), ricordo che ho cercato per una notte intera la lettera, senza trovarla. Dopo molti anni, è rispuntata fuori da un libro.Mariuccia era una mia compagna di scuola nei primi anni ’70. Caterina da Siena prima e poi VIII Istituto tecnico Commerciale, scuola di sole donne, a parte, ma sarebbero arrivate poi, le prime classi miste. Venivamo ambedue da Quarto Oggiaro, quartiere periferico di Milano, ma allora ci si frequentava poco. Lei della Fgci, io nel circolo giovanile prima e nel Mls poi: erano gli anni in cui il “settarismo” – del mio gruppo extraparlamentare, a onor del vero – aveva la meglio su qualsiasi dialogo tra persone. A scuola, iniziando a far politica, i primi confronti, i primi “scontri”. Mariuccia – non gliel’ho mai detto – mi metteva soggezione: convinta delle proprie idee, preparata, era troppo anche per una sicura di sé come allora mi ritenevo. Ma io non volevo scontrarmi con lei, interiormente la temevo. O forse, più semplicemente, lei rappresentava il primo segnale della mia non voglia di esercitare un conflitto soprattutto con altre donne – consapevolezza che sarebbe arrivata solo molti anni dopo.
Per questo, ritrovare Mariuccia dopo anni, fuori dalla scuola, senza più problemi di conflitti “politici”, mi aveva fatto ritrovare e scoprire una donna intelligente, perseverante al limite della cocciutaggine, piena di idee, ma anche allegra (non solo “seriosa” come mi era apparsa negli anni scolastici). Nel corso della sua breve vita, ho perso di vista e ritrovato Mariuccia tante volte, nel suo andare e venire tra Milano e Napoli, e informazioni su di lei mi arrivavano dagli amici comuni di Quarto Oggiaro.
Successivamente, nei primi anni ’90, si rinsalda un rapporto quando mi ha coinvolto nella redazione milanese de “il foglio delle donne”, con Anna Catasta ed altre. Poi, In occasione di qualche impegno sindacale a Napoli o dintorni (Mariuccia nel frattempo era tornata a Napoli nel ’94) mi fermavo a casa sua. Ed erano chiacchierate, scoperte di una Napoli che non conoscevo, di Marco e di Mario e dunque anche della sua dimensione di madre e di moglie. Una sera, non ricordo con precisione che anno fosse (ero lì per un’assemblea nazionale della Cisl) una lunga discussione fino a notte tarda. Ricordo che Mariuccia mi aveva quasi impressionata: era in una fase molto particolare della sua vita, non stava lavorando, e aveva un approccio che mi appariva quasi “qualunquista” rispetto alla politica, che peraltro io non frequentavo, e soprattutto al rapporto con le istituzioni. Ma come, mi e le dicevo, proprio tu, la quintessenza dell’impegno politico e sociale, tu che ai tempi della scuola “mi facevi il mazzo” perché eravamo incapaci di misurarci con la dimensione istituzionale? Siamo andate a letto e il mattino dopo ho trovato una sua lettera. Nella quale c’era tutta la Mariuccia a cui volevo bene, che non temevo più da tempo: umana, con dei dubbi, ma sempre con quella voglia di cercare, e che più tardi l’avrebbe portata all’impegno nell’authority. Insomma, la Mariuccia “politica”, se per politica non intendiamo solo fare attivita’ in un partito o nel sociale, ma anche quella vocazione ad interrogarsi, riprogettare se stessi in una nuova dimensione collettiva.
Quando ho saputo che era morta (nel frattempo ci eravamo di nuovo perse di vista, e non me lo sono mai perdonata), ricordo che ho cercato per una notte intera la lettera, senza trovarla. Dopo molti anni, è rispuntata fuori da un libro. Anche se è una lettera personale, e dopo essermi consultata con Angela, voglio condividerla con le donne – e gli uomini – che l’hanno conosciuta, apprezzata, volendole il bene che si meritava.
Rita

{Cara Rita,
sento il bisogno di scriverti queste righe perché ho come la sensazione di lasciarti sempre con una immagine di me piuttosto “decadente”.
E’ vero, non posso non riconoscere nel mio percorso un progressivo allontanamento dal mondo istituzionale (che oggi corrisponde purtroppo al politico tout court) e tuttavia non mi sento né impolitica né apolitica. Penso, ma questo è forse un difetto che ho ereditato dagli studi recenti coniugati magari con una qualche contingenza politica e storica, che la politica sia ben altro da una “normalizzazione”.
In questo pensiero della politica come “ben altro dalla normalizzazione” io trovo la mia coerenza. Non si tratta certo della mia giovanile convinzione di poter cambiare il mondo, si tratta piuttosto della mia caparbia convinzione che “l’arte del vivere insieme”, ovvero la politica, sia appunto un’arte, una possibilita’ di espressione e di messa in evidenza di una pretesa e di una aspettativa individuale di “porre rimedio” all’ingiustizia, o meglio a ciò che io vivo come ingiustizia.
Come potrai ben immaginare, la mia personale idea di giustizia cozza ogni giorno con una realta’ che di questa giustizia non ne vuole sapere.
Napoli è questa realta’.
Una realta’ che ad ogni angolo ti comunica che la mia personale idea di giustizia è appunto una idea personale. La collettivita’ qui infatti pensa in altro modo, un modo per il quale ci si stupisce si reagisce a qualche sopruso, se si reagisce alla violenza in qualsiasi modo questa sia codificata.
Ciò non toglie che io d’altra parte ami questa citta’ dolorosa. Se non assomigliasse a qualche pezzo della mia anima non accetterei di viverci.
E non credere che io non veda ciò che vedi tu: una citta’ assediata dal cielo azzurro e dal mare blu immersa in mille splendide vestigia.
Non credere che io, per colpa del parcheggiatore abusivo che mi ha fregato la Panda, unica macchina della famiglia, non sia in grado di riconoscere la meraviglia metafisica di questo esclusivo panorama umano e urbano.
Io amo questa citta’ ma la amo attraverso il cuore e gli occhi di alcuni napoletani, uomini (mio marito e mio figlio) e donne (le mie meravigliose amiche), per questo posso dire di essere particolarmente immune dalle capacita’ seduttive intrinseche della citta’ universalmente riconosciute.
Se c’è una citta’ al mondo che posso dire di conoscere, questa è Napoli.
Nessuno che abiti a Milano si sarebbe tanto appassionato nella scoperta di quella citta’ che io vedo bella per occhi che sapessero vederla.
Se c’è un merito nel governo di Bassolino è quello di essere stato bravo a farci vedere le cose belle di questa citta’ e nessun Formentini o Albertini è stato capace più di tanto a Milano.
Mia sorella un giorno mi ha detto: “Siete seduti su un tesoro e non lo sapete”. Io credo che questa sia la verita’ di questa citta’.
Io ho deciso di starci in questa citta’. Se non ci fosse stata questa decisione non mi sarei tanto incaponita su questa questione dell’Authority e sulla questione di risolvere la mia situazione professionale.
E questa infatti la condizione che mi consentirebbe di restare e provare a non sentirmi straniera a casa mia.
Perché questa è davvero casa mia. Ci ho fatto un figlio con un uomo che ho amato ed amo e mi sono potuta laureare in questa citta’.
Organizzato qui gran parte dei miei sogni.
Ma ho anche altri sogni che vorrei realizzare ed è questa la ragione della mia inquietudine.
Sento che questi sogni non sono codificabili più. Sono fuori dalle logiche locali. Sono sogni che mi ripropongono la mia condizione di “straniera”.
E’ vero, vivo nel lusso, vivo nella più assoluta liberta’ di pensiero. Lo faccio senza reddito. Lo faccio da mantenuta.
Ecco, vorrei farlo senza questa dipendenza, vorrei farlo da essere economicamente indipendente.
Non so, Rita, se tu mi capisci. Dovresti deciderti a stare qui con me qualche giorno in più, anche se non posso certo non riconoscere nelle tue brevi visite un affetto grande e quasi incondizionato.
E lo stesso affetto che io nutro per te. Il “quasi” è soltanto un modo di salvaguardare il pudore.
Viviamo in due mondi diversi ma un nodo per comunicare deve pure esserci.
Fammi gli auguri perché ne ho bisogno ma non disperare: sono quasi sicura di potercela fare.
La prossima volta che verrai non parleremo di Napoli, parleremo di noi. Te lo prometto.
Un abbraccio Mariuccia.}