Suad Amiry

Chiara Cruciati ha  raccolto le impressioni  della scrittrice palestinese Suad Amiry sulla situazione che si è andata aggravando nel mese di maggio dopo la scelta di Trump di traferire l’ambasciata a Gerusalemme. Suad Amiry  è stata ospite dell’Associazione di amicizia italo-palestinese, il 17 maggio a Firenze.

«Se domani Milano, Roma, Napoli venissero messe sotto assedio, come reagireste?». Oggi i palestinesi, nella diaspora e nella Palestina storica, commemorano la Nakba mentre a Gaza è in corso una strage. La Nakba continua, ma continua anche la lotta palestinese per il ritorno. Israele va ripetendo bugie: il responsabile delle violenze è Hamas. Per cosa esattamente è responsabile? Da tre anni non usa armi. Partiamo da questo: è impensabile mettere due milioni di persone dentro una prigione per 11 anni, impedendogli di studiare, muoversi, curarsi, uscire.

La gente è disperata, davvero disperata. Se succedesse a voi? Oggi siamo a 70 anni dalla Nakba, quando siamo stati cacciati dalle nostre terre. La mia famiglia è stata cacciata da Gerusalemme, so che significa essere un profugo che non può tornare a casa. La Nakba continua: confiscano le nostre terre, costruiscono colonie. E ora gli Stati
Uniti si comportano come cent’anni fa fece la Gran Bretagna: Trump ha promesso Gerusalemme agli israeliani come Balfour promise la Palestina al movimento sionista. Eppure stiamo mettendo in difficoltà Israele: queste manifestazioni sono resistenza non violenta e popolare.

Famiglie, donne, ragazzi preoccupano Israele perché è una resistenza che non può battere. Da generazioni i palestinesi vivono la cacciata dalle proprie terre come un fatto temporaneo. Quanto questo senso di temporaneità, ma allo stesso tempo di precarietà, ha plasmato il popolo palestinese? Per lungo tempo i palestinesi hanno provato in ogni modo a mantenere viva la speranza, anche con l’accettazione di Israele e della soluzione a due Stati, senza ottenere nulla.

In mancanza di una soluzione il sentimento di instabilità, precarietà, preverrà impedendo la formazione di una società normale. L’altro elemento di cui tener conto è quello dell’assenza, un concetto che mi ossessiona: Israele ci considera assenti anche se siamo lì, a pochi chilometri. Assenti significa inesistenti. Nonostante l’uso israeliano di forza letale senza alcuna giustificazione, la narrazione prevalente è quella della legittima «difesa dei confini». Il reale contesto di deprivazione e di lotta per la libertà dei palestinesi scompaiono. È una novità nel panorama internazionale o una narrativa consolidata a Occidente? La narrativa israeliana è diventata quella europea e americana.

La cultura occidentale ha fatto propria quella visione. Non esiste più una contro-narrativa, ma una mera accettazione delle politiche di Israele. Nei suoi libri, da «Golda ha dormito qui» all’ultima opera «Damasco», sono centrali i concetti della perdita e della nostalgia, accanto a quello della memoria. Quanto ritrova di quei sentimenti nelle mobilitazioni di queste settimane? Uno dei limiti che noi palestinesi abbiamo è il non parlare delle perdite personali subite. Non siamo stati capaci di raccontare le storie personali. Allora come oggi. Cosa significa per una famiglia aver perso lunedì un figlio o un marito, non vederlo tornare a casa, non trovarlo più nella sua stanza? Qualche anno fa durante le manifestazioni in Libano per la Nakba, un amico, Munib al-Masri, fu colpito dai proiettili israeliani e rimase paralizzato. Ho seguito la sua storia, cosa ha significato l’aver abbandonato la scuola, aver viaggiato all’estero sperando di tornare in piedi. Noi palestinesi siamo rimasti dei numeri. Nei miei racconti provo a fare questo: raccontare le storie individuali, non solo quella collettiva. Quando scrivo della perdita della mia scuola, del mio quartiere, del mio tinello, racconto cosa vuol dire Nakba per ognuno di noi. E dunque per l’intera società, per tutto il popolo.