Riceviamo un collage a cura di Licia Roselli sull’Agorà del Lavoro di Milano del 27 gennaio 2014: l’incontro con Ina Praetorius, autrice di “Penelope a Davos, idee femminmiste per un’economia globale” (Quaderni di via Dogana); lo riproponiamo in vista dell’incontro “questioni controverse dopo l’incontro con Ina Praetorius” che si svolgerà il 24 febbraio a cura dell’Agorà del lavoro e Primum vivere{{Silvia Motta presenta Ina Praetorius}}

[…] Quella di stasera è un’occasione speciale di incontro e confronto qui all’Agorà perché abbiamo la fortuna di avere con noi Ina Praetorius. Alcune già la conoscono: Ina è stata presente più volte a incontri alla Libreria delle Donne che, tra l’altro, ha tradotto e pubblicato il suo bel libro “{Penelope a Davos, idee femministe per un’economia globale}”. Anche la rivista Via Dogana fin dal 2002 ha riportato suoi testi e conversazioni con il gruppo lavoro. Ma, per chi la conosce meno, due parole su di lei prima di cominciare.

{{Ina }} – che con gran senso dell’umorismo si autodefinisce{{ una rompiscatole postpatriarcale}}, come abbiamo scritto nell’invito – è una pensatrice femminista di prima grandezza, autrice di numerosi libri, saggi, articoli su varie riviste. È nata in Germania e vive con la famiglia a Wattwil in Svizzera. È{{ dottora in teologia}}, casalinga e madre di una figlia.
_ Se qualcuno però andasse a leggere la sua presentazione sul suo sito internet, nella sezione “{about me}”, troverebbe una cosa molto divertente: Ina si presenta in tre modi, con tre {curriculum}.
– Un CV (livello C), dove descrive quello che è fa in maniera personale /non neutra, ma piuttosto convenzionale: sua madre l’ha messa al mondo nel tal anno, dove è cresciuta, gli studi che ha fatto, chi ha sposato, che ha avuto una figlia, dove abita ora.
– Un CV (livello A), dove la stessa Ina è nata in vari paesi e cresciuta in varie città, Manila, Tokio, ha studiato e lavorato in tutto il mondo, è stata consigliera permanente al Pentagono e al Ministero Afgano degli Affari esteri, ha avuto tanti figli, ha sposato Bill Gates et Britney Spears … Cioè si descrive come {{cittadina del mondo e artefice del mondo}}, per un’autorevolezza che non le deriva dall’esterno ma che lei si dà.
– Poi un ulteriore CV (livello A*) , dove inizia dicendo: “Nel marzo 1956 sono uscita dal corpo di mia madre come una neonata sanguinante, appiccicosa, urlante, ricoperta di muco. Negli anni delle persone più grandi mi hanno fornito nutrimento, riparo, il calore e il senso della vita. Ho ricevuto delle parole come “Dio”, “Amore” o “Gesù Cristo” per orientarmi nel mondo e dare senso alla mia vita… ecc.Poi dice che al mattino si alza e alla sera va a letto e cosa fa tra questi due intervalli, fino a concludere “ Un giorno morirò”. Cioè {{descrive se stessa a partire da quello che, nella costruzione patriarcale della storia, è stato rimosso:}} la nascita, che tutti nasciamo da donna e siamo esseri dipendenti. Un rimosso che ha prodotto quello che Ina definisce “un errore del pensiero, fonte di una serie infinita di conseguenze, intorno alla quale ruota la nostra percezione del mondo”.

In questa presentazione c’è molto del suo pensiero. {{Un pensiero che si misura con i grandi temi dell’oggi e che sovverte in maniera radicale il modo patriarcale di guardare all’economia, al lavoro, alla vita}} È un pensiero che io ho incontrato per la prima volta leggendo {Penelope a Davos.} Quella Davos dove ogni anno, anche in questi giorni, si riuniscono {{i big dell’economia e della finanza}} per, secondo loro, dare una sistemata al mondo, e dove Ina ha partecipato in qualità di osservatrice.
In {{una fantasia di Ina}}, Penelope è lì negli ingressi super sorvegliati del lussuoso centro congressi… è lì con il suo telaio per la tessitura, non più figura passiva come tradizione vuole, ma con il distacco e il punto di vista di una donna che sa che va ripensato tutto dall’inizio. Quindi disfa, per poi tessere, ri-tessere.
_ Ecco, “{{ripensare tutto dall’inizio}}” è quello che Ina Praetorius fa sviluppando il suo pensiero economico e politico. Un’economia e un’antropologia della natalità. Le abbiamo chiesto di parlarne qui all’Agorà del lavoro, perché l’Agorà è nata proprio con l’ambizione di portare nell’economia, nel lavoro, nel mondo il punto di vista delle donne. Ambizione e contenuti che io ritengo molto in sintonia con il pensiero di Ina Praetorius.È proprio qui, all’Agorà, che abbiamo dato voce e sostanza a concetti come il “{{Primum vivere}}”, che “il lavoro è molto di più”, che “il lavoro è tutto il necessario per vivere, non solo il lavoro per il mercato” ecc.

Ma, proprio perché ne parliamo qui all’Agorà – che vuole essere un luogo di elaborazione politica e una pratica attiva – le abbiamo chiesto di parlarci anche delle {{traduzioni politiche e pratiche che lei fa del suo pensiero}}. In particolare le abbiamo chiesto di raccontarci {{l’esperienza che ha fatto nella campagna in Svizzera sul reddito di base incondizionato,}} un’attività che ha portato avanti con l’intento di interpretare questo obiettivo in maniera post-patriarcale. E che le ha procurato non pochi conflitti.

Passo{{ la parola a Ina Praetorius e a Traudel Sattler che farà le traduzioni.}}

-{{Ina Praetorius}} {Il reddito di base incondizionato come progetto postpatriarcale.}

Per quanto ne sappiamo, finora tutti gli esseri umani sono venuti al mondo come poppanti: dal corpo di un essere umano di sesso femminile della generazione precedente. I “nuovi arrivati” possono sopravvivere solo se qualcuno/a dà loro ciò di cui hanno bisogno. Di che cosa hanno bisogno? Di protezione, di cibo, vestiti, calore, amore, stimoli, sonno, tranquillità, regole, lingua, morale e di molte altre cose. Tutto questo i nuovi nati lo ricevono come dono, perché non sono in grado di pagarlo.
Se cominciamo a ripensare l’economia a partire da questo fondamento – difficilmente contestabile – della conditio humana, allora molte cose cambiano. Perché oggi, nel tempo del fine patriarcato, viviamo ancora con un ordine simbolico che mette al centro il maschio adulto oppure uno pseudo-neutro da lui derivato: il soggetto economico “libero”, colui che partecipa al mercato, il cittadino ecc. Nella stessa logica l’economia viene sì definita come azione collettiva, basata sulla divisione del lavoro per soddisfare i bisogni umani, ma di fatto si comincia a parlare di economia a partire dai soldi, dal mercato, dallo stato e dall’età adulta, tacendo così almeno la metà delle misure atte a soddisfare i bisogni: infatti il lavoro di cura indispensabile, finora in larga misura gratuito, è il settore maggiore dell’economia, come è stato dimostrato. In Svizzera è entrato da qualche anno nella statistica ufficiale; solo che i media e la ricerca mainstream finora non ne hanno davvero preso atto. Anche se una grande parte della società continua a rifiutarsi di guardare tutta l’economia, è giusto dire che solo chi ha una visione d’insieme – che comprende cura di base, lavoro volontario, mercato e forse altro ancora – e solo chi vede il nostro agire economico inserito nel cosmo vulnerabile che continua ad elargire doni, può affrontare le varie crisi del nostro tempo in modo adeguato e sviluppare delle soluzioni durevoli.
{
2400 anni di Self Made Man (l’uomo che si è fatto da sé)}
Dal 21 aprile 2012 fino ai primi di marzo 2013 ero impegnata a raccogliere firme per l’“iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato”. In quell’occasione, nelle strade e piazze svizzere, ho sentito dire tante volte: “La mia vita me la sono guadagnata da solo!”
Che cosa vogliono dire i numerosi ex poppanti con questa frase?
Loro pensano che, dopo aver ricevuto gratuitamente per anni da qualcun altro tutto il necessario, alla fine hanno fatto degli sforzi per guadagnare soldi: per esempio hanno fatto la scuola, si sono dati una formazione, hanno trovato un posto di lavoro oppure hanno “fatto carriera” . Queste fatiche pluriennali meritano, senza dubbio, un certo riconoscimento. Posso persino capire che alcune persone che sentono di “mantenere con le loro fatiche” se stessi e forse anche una famiglia, non se la sentano spontaneamente di dare una parte del loro denaro a coloro che si impegnano meno.
Questa affermazione “guadagnarsi la vita con le proprie forze” è abbastanza corrente e stranamente poco messa in dubbio. È il riflesso fedele della visione semplicistica dell’economia, con la quale conviviamo dalla fine del ‘700 circa. Il liberalismo economico moderno, a sua volta – così come molte parti della teoria socialista – si basa su una visione sdoppiata del mondo che troviamo già nel quarto sec. A. C., ad esempio nell’autorevole Politica di Aristotele: Il filosofo sostiene che l’uomo che secondo la sua natura non appartiene a se stesso ma ad un altro è per natura uno schiavo, e anche il rapporto tra maschile e femminile sarebbe per natura così: uno è meglio, l’altra inferiore, uno governa, l’altra viene governata. Sempre secondo il filosofo, la gestione della casa è una monarchia – perché ogni casa viene governata da un’unica persona – la politica al contrario consiste nel governare uomini liberi e uguali tra loro.
Esiste quindi una continuità strutturale tra la società schiavista dell’antichità, che molti ancora oggi chiamano affettuosamente “la culla della civiltà occidentale” – e la nostra vita collettiva di oggi. Ma si comincia a vedere che “la mano invisibile del mercato”, buona erede del “Dio padre” patriarcale, in realtà sono innumerevoli mani, soprattutto femminili, che lavorano. Ora quelle mani cominciano a diventare visibili, e ciò crea degli spostamenti, delle crisi – ed enormi spazi d’azione.

{Si potrebbe ricominciare a riflettere …}
Il dibattito sul reddito di base incondizionato sarebbe, ad esempio, una possibilità straordinaria per pensare noi stessi come esseri umani in modo del tutto nuovo – o forse antico: liberi nella dipendenza. Esseri umani che hanno ricevuto molti doni, in continuazione, all’inizio della vita e anche in età adulta, e che “si sono guadagnati da soli” solo una piccola parte della loro vita. La politologa Antje Schrupp spiega il necessario cambio di paradigma dicendo:
“La realizzazione dell’idea del reddito di base richiede un profondo ripensamento culturale, con due aspetti che non si possono guardare separatamente: da una parte l’idea che è normale ricevere qualcosa senza prestazione in cambio, dall’altra parte l’idea che le persone si sentono responsabili del loro ambiente e che fanno il necessario, anche senza essere costrette o remunerate.”
Se si affrontasse il dibattito alla luce dell’intera economia, invece di quella basata esclusivamente sul denaro, allora si vedrebbe che il reddito di base non è solo una questione di più libertà, come continuano a sottolineare molti dei protagonisti maschili di questo movimento, ma che si tratta piuttosto di organizzare le attività necessarie in modo nuovo. Finora si è parlato molto di libertà e poco di dipendenza e necessità – e solo raramente si dice che le donne già da molto tempo si stanno facendo carico della maggior parte della attività necessarie, senza quegli “incentivi economici”, da molti ritenuti indispensabili.… e spesso si lascia perdere

A questo proposito vorrei citare l’esempio della polemica nata attorno alla trasmissione-dibattito “Arena” alla televisione svizzera del 27 aprile 2012, dedicata alla discussione sul reddito di base. In quella trasmissione si confrontavano quattro uomini, due favorevoli e due contrari. La trasmissione durava 75 minuti. Gli uomini presenti ne hanno occupato 72 per i loro interventi, le donne tre. Dopo 10 minuti viene inserito un grafico per illustrare il progetto reddito di base: una sagoma maschile, accompagnata dal commento
“Uno che guadagna 10.000 franchi, nel nuovo sistema riceve un reddito di base di 2.500 franchi e uno stipendio di 7.500.”
Poi appare una sagoma femminile, accompagnata dal testo:
“Chi non lavora riceve, senza fare niente, 2.500 franchi.”
L’affermazione ripetuta più volte dai contrari all’iniziativa, cioè “chi non guadagna denaro non rende, e quindi bisogna stimolare queste persone con incentivi monetari” non incontra quasi alcuna obiezione.
Fortunatamente la massima istanza per il controllo dei media ha accolto all’unanimità il ricorso di una telespettatrice, Martha Beéry-Artho, che aveva formalmente protestato per mancanza di informazione adeguata in questa trasmissione. Il giudizio che le dà ragione dice che il maggiore settore economico, non pagato o sottopagato, cioè la cura, non deve essere un “aspetto secondario” in una trasmissione dedicata al futuro della convivenza umana.

Ma la storia non finisce qui: nelle settimane successive al giudizio dell’autorità di ricorso, io in quanto membro del comitato d’iniziativa ho cercato di far capire alle e agli altri promotori e anche ai media che questo fatto era da mettere in grande rilievo.Ma giornalisti di grido, redattrici e attivisti per il reddito di base si sentivano infastiditi dalla mia richiesta e mi spiegavano che non spettava a loro “portare più donne in televisione”. Erano sordi alla mia obiezione che una rappresentazione adeguata della dipendenza dalla cura non si ottiene grazie a “più donne”, ma solo attraverso precise analisi economiche. Il comitato d’iniziativa ha deciso a maggioranza di non pubblicare un commento positivo sul giudizio dell’autorità di ricorso. Il giudizio è poi stato pubblicato in Internet e io ho smesso di raccogliere firme per l’iniziativa popolare, cosa piuttosto inusuale per una che l’ha promossa. In seguito la potente società televisiva ha trascinato il caso davanti alla corte suprema. Quest’ultima ha revocato il giudizio dell’autorità di ricorso l’11 ottobre 2013.

{Ancora da capo}
L’ “iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato” ha consegnato a Berna il 4 ottobre 2013 più di 120.000 firme valide. Il dibattito continua, e ciò significa che avremo ancora molte occasioni per dare un’impronta postpatriarcale al reddito di base incondizionato, contro una resistenza massiccia, ma con molto divertimento e molto lavoro sulle relazioni e sul linguaggio.
Insomma, la questione fondamentale di questo dibattito è di capire chi siamo in realtà, noi esseri umani: riconosciamo il fatto di essere dipendenti dalla cura, e che riceviamo tanti doni, anche da adulti? Capiamo che per questo motivo ogni forma di attività nel mondo è un atto di restituzione per qualcosa ricevuto in precedenza? In futuro, tutti, non solo le casalinghe e le madri, saranno disposti a fare le cose sensate e necessarie, senza incentivi monetari?
La politica postpatriarcale è un’arte. È un processo di contrattazione che non finisce mai. Mi capita di disperarmi per l’ottusità di tante persone. Mi capita di essere talmente arrabbiata da voler prendere d’assalto il grattacielo della società televisiva, e anche il tribunale federale. Ma quasi sempre è una festa continuare il lavoro, imperterrita, insieme alle mie amiche politiche. {Traduzione dal tedesco: Traudel Sattler}

-{{Report: la discussione con Ina Praetorius. }} a cura di {{Giordana Masotto}}

Questa è la discussione che è seguita all’introduzione di Silvia Motta e all’intervento di Ina Praetorius, a cui è già stata data circolazione. Nel testo che segue in carattere corsivo sono riportate le domande/osservazioni, in tondo tutte le risposte di Ina. Una osservazione preliminare: parlando in tedesco Ina usa il termine inglese {care}. Questa scelta inizialmente sfugge alle presenti ma diventa significativa e spiegata nel corso della discussione.

{La parola cura è da riferire esclusivamente alla realtà femminile, alla nascita e all’essere umano nei primi anni di vita, oppure è un filtro attraverso cui giudicare qualsiasi tipo di realtà terrestre, nel bene e nel male?}
_ Il concetto di cura si è sviluppato sempre di più in questi ultimi anni. Prima si parlava di etica della cura e da vent’anni anche di economia della cura. È ovvio che quello dei bambini piccoli è il paradigma del concetto di cura perché chi lo riceve è veramente dipendente. Ci sono due idee di cura. Uno è il nocciolo, quella indispensabile che non si basa sulla reciprocità, per esempio verso bambini, vecchi, malati con demenza senile. Poi c’è la cura che ha dentro la reciprocità, essere responsabile nei confronti di adulti, genitori, conviventi, ma sempre c’è un bisogno di cura. Un concetto ancora più ampio di cura è una postura nei confronti del mondo, il senso di responsabilità, e qui entriamo nell’ecologia, responsabilità nei confronti del mondo e dell’ambiente.

{La tua idea di cura legata alla nascita implica una restituzione dovuta al fatto che si è cresciuti, quindi una cura che fa crescere. Anche nell’economia si parla di crescita, sempre con la paura che non ci sia. Tu hai un’idea diversa di crescita, perché se è restituzione di ciò che si è ricevuto non dovrebbe essere pagata. Ne deriva una impostazione diversa anche della politica.} ({{Laura Minguzzi}}).
_ È giusto, ci sono due concetti di crescita. La crescita economica non è la stessa cosa della crescita umana e anche della natura, piante e animali. La crescita economica deve andare sempre in salita mentre nella crescita umana e in natura prima si cresce poi ci si ferma e non si cresce più. È chiaro che non sono la stessa cosa. Potremmo dire che la crescita economica, come è concepita oggi, è una crescita tumorale, non è naturale. Potrei dire tante altre cose su questa punto.
Mi affascina l’idea di una battaglia politica che possa portare il femminismo postpatriarcale nella battaglia del reddito di base. L’impostazione che ne dai mi convince molto. Ma c’è un punto che mi sta veramente sullo stomaco: negli ultimi anni il divario tra ricchi è poveri è cresciuto a dismisura, come mai nel passato.

{Questa battaglia può incidere su questa punto? Il concetto di “incondizionato” che conseguenze ha?} ({{Vita Cosentino}}).
_ Per quanto riguarda il divario tra ricchi e poveri, a Davos è venuta fuori una cosa terribile: 85 individui possiedono la stessa cifra della metà più povera della popolazione mondiale. La questione della redistribuzione è motivo di conflitto anche nello stesso comitato svizzero per il reddito di base (che è formato da 8 persone, 5 uomini e tre donne). Ci sono due posizioni: alcuni dicono che la redistribuzione è proprio lo scopo del reddito di cittadinanza; invece altri, i neoliberisti, dicono che dovrebbe servire a distribuire più soldi tra i più poveri, ma quello che fanno i ricchi non li interessa. Per me anche questo è stato un motivo per lasciare il comitato.

{Nel 2013 c’è stata in Svizzera un’altra iniziativa che voleva mettere un limite al divario tra stipendio dei manager e salari più bassi. Che cosa ne pensa?.}
_ Non è passata purtroppo. L’obiettivo era: all’interno della stessa azienda il salario di base non può essere inferiore a 1/12 di quello che guadagna un top manager. Oggi ci sono aziende in cui quel rapporto è 1/180. In Svizzera, dove abbiamo la democrazia diretta, ci sono molte iniziative, alcune populiste, altre radicali. Recentemente ne è passata una che non è male: gli azionisti possono determinare lo stipendio dei manager. Tutte queste iniziative sono molto interessanti, adesso per esempio ce ne sarà un’altra per il salario minimo. Ma il mio impegno personale per un reddito di base incondizionato è determinato dal fatto che a me interessa ridefinire il lavoro, che venga preso in considerazione quel 50% di lavoro non pagato.

{A me piace la definizione di cura come postura/paradigma di responsabilità nei confronti del mondo. Aggiungerei solo, “responsabilità collettiva di donne e di uomini” anche perché le donne sono sempre state considerate una risorsa di salvezza per il mondo. Mi piace meno il paradigma domestico, la figura di Penelope e il legare la cura alla nascita, non perché non sia indicativo del bisogno degli umani ma perché evoca immediatamente la figura del materno. La cura porta il peso di una storia che l’ha considerata attitudine naturale delle donne, destino, ruolo. Io penso che non si possa spostare la cura dal privato al pubblico senza metterla in discussione profondamente. Il rischio altrimenti è di portare nella sfera pubblica una logica del materno, un tratto femminile che non va a mettere in discussione radicalmente l’organizzazione del lavoro. Importante mettere in discussione entrambi i paradigmi quello femminile e quello maschile. Altrimenti sembra che si possa semplicemete dare un segno diverso alle doti femminili tradizionali. Anche Penelope, per quanto } {ripensata, resta una figura molto pesante nella storia delle donne: figura dell’attesa, della fedeltà, della ripetizione del domestico.} ({{Lea Melandri)}}.
_ Quello che mi sta a cuore è il paradigma del nutrimento: il lavoro deve nutrire ciò che nutre. Abbiamo ricevuto tante cose in dono: dunque per me il criterio per un buon lavoro è che ogni lavoro deve essere un lavoro di cura. Non importa se produco una macchina o se coltivo un giardino o curo un bambino, tutto deve essere un lavoro di cura. Voglio aggiungere una cosa. Adesso abbiamo questo papa nuovo, papa Francesco che si esprime in modo sempre molto critico verso il capitalismo per cui è molto applaudito da molti uomini e anche da molte donne. Ma se guardiamo come lui vede le donne c’è da stare attente. Se leggiamo bene quello che dice il papa vediamo che esiste sempre questo sdoppiamento: una sfera alta dove ci sono gli uomini e i cattivi capitalisti e una sfera inferiore in cui ci sono le donne che stanno in casa e si occupano di cura. Però in Germania, non in Svizzera, nella chiesa protestante, l’anno scorso in luglio è stata pubblicata una enciclica che riprende le idee che avevo formulato io: che ogni lavoro deve essere un lavoro di cura. Il comitato che ha scritto l’enciclica è composto prevalentemente da donne. A proposito di questa argomento è nata una controversia. In un recente convegno femminista a cui ho partecipato, una intervenuta diceva: è imbarazzante, ma le cose più buone oggi su questi argomenti vengono dette nella chiesa protestante tedesca. Attualmente c’è una specie di scissione nella chiesa protestante tedesca a causa dello scritto che ho appena citato. I conservatori dicono che questo non è più un testo cristiano. Ciò è significativo: è da interpretare come fine del patriarcato.

{Vorrei che chiarissi meglio il concetto di cura, dal momento che lo applichi non solo all’oikos ma anche alla produzione delle macchine. Lavoro di cura o lavoro accurato?.}
È una domanda importante, una questione aperta, di cui mi piacerebbe discutere. A me piacerebbe che il concetto di cura si potesse applicare a qualsiasi settore della produzione, un grattacielo, una macchina… vorrei discutere su che tipo di produzione ci sarebbe se si potesse applicare il concetto di cura. Non “in modo accurato” ma secondo il concetto dicare, che è una postura nei confronti del mondo.

{L’aspetto più radicale del tuo concetto di cura credo sia l’atteggiamento responsabile verso l’ambiente e verso il mondo. Se è questa il fuoco, è abbastanza facile cogliere la portata rivoluzionaria di questa concetto e come lo si possa portare fuori dall’ambiente domestico. Noi in un circolo femminista avevamo detto che noi donne abbiamo imparato una razionalità molteplice crescendo i figli}. ({{Sandra Bonfiglioli}}).
Voglio tornare all’inizio del mio discorso. Abbiamo ricevuto tanti doni da piccoli e poi in continuazione: infatti tutto, anche un cellulare, viene prodotto con materie prime che sono doni, anche se tutto oggi viene commercializzato. La base di tutto sono le materie prime che la terra ci dona. Io sono nutrita e sono grata per tutto quello che ricevo. La domanda è: cosa comporta questa idea di gratitudine se la rapportiamo anche alla produzione industriale?

{Questi discorsi circolano anche nei movimenti di economia alternativa/solidale che dicono: è necessaria una riconversione ecologica della produzione. Quello che a me fa problema è riuscire a valorizzare le donne come soggetto politico. Come le donne ri-significano le battaglie politiche, i contesti in cui si trovano ad agire. Quello che mi piace e mi interessa della posizione di Ina è che lei si è messa nel comitato per il reddito di base per ribaltarne il senso politico. Questa è la priorità: quale senso dai al tuo agire là dove ti trovi a muoverti. Non basta avere una perfetta costruzione teorica. Le donne spesso vengono cancellate come soggetti. Per esempio è il caso delle donne che in Italia lottano per il reddito di base: vogliono connotare quel discorso, ma si trovano cancellate, riassorbite nel discorso che dice il reddito è necessario e giusto perché tutta la nostra vita è mercificata, (la famosa sussunzione). Ina ribalta quella battaglia e le dà un altro senso, mettendo al centro le donne.Ma da questa punto di vista bisogna riuscire a dare la stessa visibilità a donne che si trovano a fare le loro battaglie sul posto di lavoro. Lotte per il tempo, per il senso, più libertà, esperienze della cura dentro il lavoro. Bisogna dare visibilità alle donne là dove sono } {e significare diversamente molte battaglie, non solo quella del reddito. } ({{Giordana Masotto}}).
_ Per me è stato in questi ultimi due anni di attività che ho potuto far agire la teoria accumulata negli ultimi 30 anni: anche grazie alle cose capite qui in Italia, ho scoperto che la teoria è abbastanza solida da poter essere portata dappertutto, nei sindacati, nella chiesa, dappertutto. Quando porto questa politica, anche nel comitato, ci sono sempre delle reazioni sorprendenti: quando ho detto siamo tutti dipendenti dalla cura, gli uomini del comitato sono rimasti lì abbastanza esterefatti. Trovo molto interessante vedere le reazioni degli uomini e delle donne a questa impostazione politica.

{C’è qualcosa che non mi torna nella cura come dono incondizionato legato alla nascita. Non ho figli ma sono figlia e so bene che la cura non è incondizionata, per natura, ma molto condizionata da una presenza che è di desiderio attivo, una relazione che mi nutre e mi dà senso della vita. Dono incondizionato mi pare che sia un po’ cancellare la presenza forte delle donne e del loro desiderio. Si perde il soggetto politico.} ({{Loretta Borrelli}}).
C’è un aspetto di incondizionato perché il bambino se non riceve la cura muore. Così come tutti abbiamo bisogno dell’ossigeno per vivere.

{Io non sono per niente sicura che il nutrito provi gratitudine, anzi al contrario. Anche nei bambini porta a dare queste cose per scontate e comunque non li porta a rifarle a loro volta. Comunque quello che mi interessa capire è che cosa muove il piacere di curare, di essere responsabili. Io credo che la strada sia un’altra: sono l’esercizio di rispetto dell’uguaglianza, le pratiche di reciprocità e di condivisione che aiutano a riconoscere il bello, gli altri, quello che si riceve.} ({{Antonella Nappi)}}.
_ Sono d’accordo con te che l’atteggiamento di gratitudine non viene spontaneo dopo duemila anni che il patriarcato ci ha così indottrinati. Tanto è vero che Antje Schrupp dice che dobbiamo imparare a percepire noi stessi come un dono. Non mi sono fatta da sola, ho ricevuto un dono.

{Da tutte le cose dette mi pare che venga fuori un’idea di debito: abbiamo ricevuto quindi siamo in debito, dobbiamo restituire. Mentre nelle lotte che si fanno classicamente pensiamo di avere un credito: nel lavoro, ma anche nell’essere nati perché abbiamo ricevuto un dono ma non l’abbiamo chiesto. È l’idea di credito che c’è nelle lotte sul lavoro. Nella richiesta di reddito incondizionato io non sento misura. Qual è la misura del debito? Ci deve essere una misura.} (Rosaria Guacci).
{Sono d’accordo con Ina sulla critica al mercato e a questa economia monetaria, ma ci vuole comunque una misura femminile. Questo dono incondizionato e questa incondizionata restituzione non sono comunque una misura. C’è una visione, ma manca una misura a cui dobbiamo arrivare. Al posto dei soldi che cosa ci si mette in questa economia così ribaltata? Credo che nella relazione, come diceva Loretta, nello scambio tra le persone si possa trovare una misura.} ({{Lia Cigarini}}).
_ C’è da dire che il reddito di base incondizionato non abolisce lo stipendio. Vivendo in una economia monetaria, nessuno può vivere senza soldi. Il reddito di base incondizionato dice che tutti devono avere una certa quantità minima di soldi (1000 euro, 2500 franchi). Oltre a questa, continua a esserci lo stipendio. Non stiamo parlando di un salto qualitativo enorme come passare a un’economia non monetaria. In Svizzera abbiamo già il salario minimo garantito, un sussidio statale per tutti coloro che non hanno mezzi. Questo sussidio è condizionato perché tu devi provare in continuazione che sei bisognoso. E vieni controllato. Il passaggio quindi sarebbe dal condizionato all’incondizionato. Quindi la misura, in una società basata sui soldi, è la sopravvivenza. Tutto quello che va oltre, entra nel mercato dello stipendio.

{Ringrazio Ina, sono contenta che sia qui e sono d’accordo al 99% con le sue idee Ma, come dicevano anche Giordana e Lea, come portare dentro le aziende questa idea della cura e della compatibilità della cura? Mi chiedevo se non bisognerebbe trovare una iniziativa legislativa anche sulla riduzione di orario.} ({{Maria Benvenuti}}).
La riduzione dell’orario di lavoro è un modello interessante ma non implica un cambiamento culturale profondo che è quello che io vorrei. Perché con la riduzione dell’orario, il lavoro di cura può restare alle donne, non c’è nessuna garanzia che cambi qualcosa. Noi abbiamo bisogno di un cambio culturale profondo. E sottolineo che non si tratta di una questione morale. Se parlo di gratitudine, potrebbe sembrare una questione morale. È questione ontologica: chi sono io come essere umano, come essere relazionale? Questo mi interessa.

{Se non ci fossero i soldi, quello che bisognerebbe garantire sono i servizi, le attività che garantiscono la sopravvivenza. Il presupposto è che esiste una comunità umana di cui facciamo parte e che è obbligo/dovere/responsabilità di questa comunità garantire la vita di tutti. Questo diritto alla vita è riconosciuto in tutte le Costituzioni. Tutta la comunità deve essere orientata a questo diritto. Ma questo obiettivo dovrebbe essere garantito anche da un’economia di mercato, che si basa sui soldi}. ({{Alfonso}}).
_ È un fatto che l’umanità ha funzionato per tanto tempo senza soldi, ma non ha mai funzionato senza aria e senza acqua. Questo è un fatto. Ma il capitalismo e il patriarcato hanno fatto sì che i soldi, che all’inizio erano un mezzo di base per garantire la sopravvivenza, oggi non la garantiscano più, lo vediamo dalle cifre che indicano la distribuzione della ricchezza. La sinistra propone la ridistribuzione della ricchezza attraverso la piena occupazione: tutti devono lavorare per avere i soldi. Poi c’è la posizione di chi dice che anche il lavoro di cura va pagato, cioè propone la professionalizzazione del lavoro di cura. Io sono assolutamente contraria perché il lavoro di cura per un neonato che altrimenti morirebbe non è traducibile in un lavoro pagato. Chi fa il lavoro di cura è molto più ricattabile di chi fa il lavoro industriale: quest’ultimo può smettere di lavorare, fare sciopero, ma se interrompi il lavoro di cura l’altro muore. Le donne fanno questo lavoro da migliaia di anni senza incentivi economici: questo ci dice che, se il lavoro ha senso, non ci vuole un incentivo economico per farlo. ({applausi)}

{Io vorrei spostare l’attenzione su un punto che mi ha particolarmente interessato: la possibilità di avere una scelta. Il mercato ci dice: non c’è scelta. Invece (con un reddito di base) io posso scegliere, ho i mezzi di sopravvivenza e quindi posso avere un diverso orientamento rispetto a quello che per esempio mi imporrebbe un lavoro non necessario o un lavoro nocivo. Mi è tornato in mette un lavoro che ho fatto con la camera del lavoro di Brescia. Lì ci sono molte fabbriche di armi. Quando si discuteva con i delegati sindacali del problema di immettere forza lavoro in fabbriche che producono strumenti di distruzione, l’obiezione era che tuttavia quel lavoro era necessario alla sopravvivenza. Io penso che il reddito incondizionato possa spostare dalla necessità alla scelta. Possa metterci nella posizione di mettere in scacco un capitalismo che ci dice: non c’è alternativa. Mettere cura nel lavoro vuol dire questo: fare un lavoro che ha senso per noi e per la collettività perché non implica distruzione e coercizione}. ({{Maria Grazia Campari}})
_ Sulla questione della scelta, nel comitato siamo tutti d’accordo. Il reddito di base incondizionato ci mette nella posizione di non avere più nessuna scusa per appoggiare il capitalismo, per produrre cose insensate, ma possiamo fare solo lavori che ci sembrano sensati. Questa è una posizione rivoluzionaria.

{Io mi riconosco molto nella posizione enunciata da Ina, infatti insieme ad altre avevamo fatto un testo che iniziava: Primum vivere anche nella crisi. Mi riconosco in questo sguardo, postura. Sono anche d’accordo che le donne hanno maggiormente questa capacità di passare dalla necessità alla libertà, cioè di non puntare a una libertà slegata dalla necessità, perché sanno che si nasce e si muore dipendenti. Il punto che a me fa problema è il nome cura, lavoro di cura, dato a pratiche di relazione che le donne hanno inventato. Nominerei tutto questo relazione, proprio perché la relazione, anche quella della pratica politica, dà una misura: è in gioco nutrimento, restituzione, ma tutto ciò viene misurato nella relazione. Il nome cura, ha ragione Lea, ha una storia pesante. Mentre la relazione le donne l’hanno trasportata nella pratica politica. Se ci deve essere un apporto simbolico, un cambiamento culturale, diciamo relazione.} ({{Lia Cigarini}}).
_ Anche la parola tedesca cura ha questo peso che voi sentite per la parola italiana. Infatti noi usiamo il termine inglese {care}, un anglicismo che è privo di connotazioni. Sono interessata a un dibattito sulle parole, ma il termine relazione non copre tutto quello che io voglio dire. Nel libretto che abbiamo scritto {ABC des gutes Lebens, ABC della buona vita}, abbiamo usato due diverse parole dipendenza e relazione, abbiamo voluto usarle entrambe. È importante parlare di libertà nella dipendenza, senza separare.

{A me è sembrato molto interessante il rapporto tra lavoro di cura o di relazione o di dipendenza e il reddito di base. Perché possiamo significare politicamente con una misura economica il peso storico del femminile. Mi sembra interessante l’effetto trascinante che può avere sugli uomini. È interessante questa forzatura o questa mediazione da portare all’interno di un istituto maschile economicamente connotato, all’interno della sinistra. Gli uomini possono più facilmente portare la cura nel loro lavoro}. ({{Lola Santos}}).
_ In effetti è molto importante: questa cosa può trascinare gli uomini. Nei dibattiti, nelle discussioni durante la raccolta di firme, erano molto sorpresi, alcuni esprimevano forti resistenze. Io dicevo: “ma tu saresti sopravvissuto se tua madre non ti avesse dato da mangiare?” “ma tu sai quanti doni hai ricevuto?” “sai quante mani invisibili reggono l’economia?”. C’è molto sconcerto e resistenze. Ma poi ci pensano su e credo che ci sarà un processo di cambiamento.

{Volevo ripartire da un concetto che diceva Ina: quando il lavoro ha un senso l’incentivo monetario non serve. Nel mio lavoro che cosa fa ordine quando non è la misura del denaro che ti muove? Ho verificato più volte (racconta alcuni esempi della sua situazione di lavoro) che è il riconoscimento che fa mettere energia e passione nel lavoro.} ({{Sara Gandini}}).
_ Questo risulta anche da ricerche: non è vero che la motivazione economica è sempre quella prevalente. Le persone prendono anche meno soldi se il loro lavoro ha senso.

{Voglio tornare sulla questione delle parole: perché usare la parola inglese care, quindi non una parola della propria lingua madre? Qui mi pare che ci sia un nodo irrisolto.}({{Vera Spirolazzi)}}.
{Sono molto interessata alla questione di trovare una dimensione di cura nell’ambito del proprio lavoro. Il poter scegliere a cui faceva riferimento Maria Grazia potrebbe in effetti dare un senso al reddito incondizionato. Quanto all’uso delle parole, nell’ambito in cui la}{voravo io, si diceva “attenzione” per esprimere questa qualità nel lavoro con le persone. } ({{Elena Medi)}}
{Noi siamo in una società capitalistica in cui il tempo di lavoro è stato ridotto a orario, l’orario è misurabile e quella misura può essere una ragione di scambio. Questo è il lavoro in cui viviamo ancora, benché in declino. La tua teoria si basa su un criterio universale che noi donne riconosciamo subito: il dono. Ci riconosco molto del mio percorso. Ma rimane aperta la questione della misura. Senza misura siamo in mano a rapporti di forza che non riusciremo a controllare. Forse è quello che cercava anche Maria parlando di riduzione di orario di lavoro. Dobbiamo osservare le pratiche e approfondire a partire dalla tua teoria}. ({{Sandra Bonfiglioli}}).
{La questione della misura: io penso che la misura stia nella contrattazione. Che mette insieme due soggetti che hanno bisogno l’uno dell’altro, ma irriducibili l’uno all’altro. C’è contrattazione nei luoghi di lavoro, nelle relazioni personali, politiche. } ({{Giordana Masotto}}).
_ La contrattazione è un aspetto fondamentale e il reddito di base ci mette in condizione di contrattare. La misura la troviamo man mano che cominciamo a contrattare e contrattando troviamo che cos’è un lavoro utile, sensato, importante. Ma vi ringrazio molto di aver posto questa questione della misura e la porterò a casa. (Dalla registrazione dell’incontro con la traduzione simultanea di Traudel Sattler)

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v. ancher {{Ina-Praetorius rilancia ogni lavoro deve essere di cura entusiasmo e qualche perplessita}} di {{Giovanna Pezzuoli}} in commenti a http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=60896