A che serve essere italiane?

Alle elezioni del 15 maggio Berlusconi è stato bastonato a dovere; Bossi anche; Casini, Rutelli e Fini hanno avuto un magro raccolto; ben piazzati i candidati esterni alla nomenklatura e le 5 stelle. Ma le donne: come ne escono? Dopo tutto, non erano state loro, cioè noi, a inaugurare questa spallata di orgoglio civile il 13 febbraio scorso?Me lo sono chiesta dopo aver visto i risultati, che hanno premiato soprattutto alcuni uomini, e purtroppo messo in evidenza il lato peggiore di alcune donne che fanno politica (Letizia Moratti, Dorina Bianchi, Daniela Santanchè), ma soprattutto che hanno ‘cancellato’ la presenza attiva nella società civile di milioni di donne democratiche, le quali nei mesi scorsi hanno contribuito in modo determinante a questi risultati. Nessuno dei commentatori che per ore hanno elogiato in televisione i numeri della vittoria anti-berlusconiana le ha mai nominate, e d’altra parte quelle elette sono state pochissime.

Così – come per incanto – si sono volatilizzati gli sforzi che avevano portato alla manifestazione di febbraio: un’esplosione felice e generosa nell’allucinante clima di corruzione e di pornocrazia vissuto negli ultimi due anni nel paese. Non sarebbe il caso di ragionare sul perché in febbraio tutte le vedevano a riempire le piazze, e poi sono sparite? Quale magia le presenta al pubblico in paillettes luccicanti, le incatena e le rende invisibili rinchiuse nella cassa, per farle riemergere (forse) più tardi? Lo spettacolo del prestigiatore non ricorda un po’ anche quello della politica?

Con ancor maggiore amarezza mi ero posta la questione il giorno prima delle elezioni, sabato 14 maggio, aprendo “Tuttolibri”, supplemento de “La Stampa”. Il giornale aveva voluto offrire ai lettori un paginone centrale nel quale restituire il senso degli sforzi con cui gli organizzatori del Salone appena concluso avevano cercato di racchiudere 150 anni di scrittura nazionale. Il titolo che campeggiava – A che serve essere italiani – era preceduto da un breve cappello riassuntivo su cui era scritto: “L’identità nazionale.

Progetti di ‘religione civile’ dal Risorgimento al ‘900, per una condivisione di valori e simboli, oltre gli interessi singoli e di parte.” Il testo – un articolo di Giovanni De Luna, anticipazione della lectio magistrale che lo storico avrebbe pronunciato la domenica pomeriggio nella sala Azzurra del Lingotto – è incorniciato da 30 piccoli rettangoli rossi bianchi e verdi. Si tratta dei “15 Super libri” e dei “15 autori che, “ ‘nell’Italia dei libri,’ più hanno fatto ‘identità nazionale’.” Ciascuno dei rettangoli colorati racchiude una foto dell’autore, con accanto nome e titolo dell’opera più famosa; qualche volta una breve spiegazione sull’importanza del personaggio ritratto. Ci sono i soliti famosi: da Nievo a Pascoli, Croce, D’Annunzio, Gramsci, fino a Eco e Saviano; con qualche concessione di par condicio.

Avete già indovinato dove volevo arrivare? a far notare che entro questa cornice, patriottica e letteraria insieme, non ci sono donne? Quasi. Un unico nome campeggia assai visibile in alto a sinistra: quello di Oriana Fallaci. Ma un destino di totale oscuramento è riservato alle grandi figure femminili della letteratura italiana del ‘900, a Natalia Ginzburg e Amelia Rosselli, Elsa Morante, Sibilla Aleramo e Annamaria Ortese, Alda Merini, Grazia Deledda, Alba De Cespedes, Fabrizia Ramondino, Lalla Romano… per nominare solo alcune di quelle scomparse. Nessuno dei redattori de “La Stampa”, e degli organizzatori del Salone del Libro, le ha ritenute meritevoli di un rettangolino colorato nel panteon nazionale.

Sembra la solita lamentela della vecchia femminista; dovrei essere abituata a questi ‘oscuramenti’, considerato che le prime manifestazioni delle donne risalgono ormai quasi a mezzo secolo fa.
_ Eppure, qui c’è qualcosa di più e di diverso, esaltato da un insieme di circostanze concomitanti: due anni di una vita pubblica all’insegna dell’accoppiata sesso-potere accompagnati da una impennata nell’opera di mercificazione del corpo femminile e dal peggioramento dei tassi di occupazione delle donne italiane, tra i più bassi in Europa; l’impegno per celebrare l’anniversario dell’unità d’Italia come una possibilità di impegno civile nel vuoto assoluto di prospettive politiche e con una crisi sociale di proporzioni minacciose; le elezioni amministrative; lo stato di guerra in Libia con la conseguenza di un allarmante aumento negli sbarchi di rifugiati e profughi sulle coste del paese.
_ Emergenze internazionali e urgenze nazionali; con un unico importante episodio di mobilitazione di massa a livello nazionale su questioni di diritti e democrazia: la manifestazione delle donne del 13 febbraio.

Perché in tutto questo mi preoccupo di qualche rettangolino su un giornale?

Il fatto è che non si tratta soltanto del fatto che scompare metà del paese e che così vengono dimenticate un buon numero di grandi scrittrici. Come sappiamo, questa è un’abitudine che si tramanda da generazioni nei manuali di storia e di letteratura italiana, dove solo poche schede o brevi capitoli sono destinati a dar conto di quel mezzo paese che si dà da fare per far nascere e allevare quell’altro mezzo; e poi, è capace di impegnarsi anche in altre cose; per esempio, a scrivere benissimo.

Ma nel caso del Salone del Libro mi viene tolto qualcosa di molto importante: il diritto delle donne di questo paese all’‘italianità’. Nell’istintivo gesto spontaneo con cui i compilatori della pagina di “Tuttolibri” dedicata a celebrare l’identità nazionale e l’”essere italiani”, tralasciano tanti nomi importanti di donne, e con superficiale ingenuità celebrano soltanto 29 uomini, ad accompagnare una solitaria Oriana Fallaci, si può leggere dell’altro.
_ La noncuranza con cui si sottolinea il carattere unicamente maschile dell’italianità non fa che accrescere l’illusione di un paese che si riproduce per partenogenesi. Nelle infantili fantasie monosessuali della redazione di “Tuttilibri”, quelli che fanno bella mostra di sé al fine di celebrare l’italica unità, sono uomini che discendono da altri uomini, e ne formano altri ancora uguali e simili a loro. Come nel film “Matrix”.

In aggiunta, l’articolo dello storico De Luna – un affresco dall’Italia postunitaria a quella liberale, alla Resistenza e alla prima Repubblica – chiamato a sostenere narrativamente i 30 ritratti, per quanto condivisibile in alcune parti, non fa che corrispondere e dare sostanza alla cornice rettangolare, a dispetto dell’obiettivo di essere “oltre gli interessi singoli e di parte”. E sempre più queste parole a commento dei ritrattini somigliano a fotogrammi di “Matrix”. Non viene in mente che la generica condivisione di ideali astratti è anche annullamento e negazione delle differenze?

Eppure al Salone hanno parlato in tante, e si sono venduti moltissimi libri scritti da donne. Come mai non riescono ad avere il diritto a un rettangolo tutto per sé? Forse questo c’entra qualcosa con gli ostacoli che le italiane incontrano sull’arena pubblica e politica? La difficoltà delle donne a riconoscersi in una pagina intitolata “a che serve essere italiani” nella quale sono del tutto assenti, è del tutto affine a quella relativa alla politica.

Pensiamo alla parola ‘cittadinanza’. Per il dizionario, la definizione generica indica “il vincolo di appartenenza di un individuo a uno stato, che comporta un insieme di diritti e doveri”. Ma cittadinanza significa molte più cose per le donne.

Almeno due delle tante su cui potremmo discutere sono importanti: partecipazione al corpo politico e presenza nella sfera pubblica. Entrambi questi aspetti implicano una tensione ineliminabile tra inclusione ed esclusione, uguaglianza e differenza, pubblico e privato. Il femminismo è riuscito ad ampliare la sfera pubblica democratica, a irrobustirla e a orientarla in direzioni nuove, avendo come obiettivo quello di spostare le barriere di divisione tra l’uno e l’altro.

Tuttavia, il paradosso della politica delle donne nel contesto della democrazia liberale, ha scritto Joan Scott in un libro sulle femministe francesi di qualche anno fa, consiste nel fatto che le donne si sono spesso trovate insieme a chiedere ma al tempo stesso anche a rifiutare la differenza sessuale: per essere incluse a prezzo di un annullamento, o escluse in nome di un riconoscimento della differenza.
_ Questa incongruenza si allarga a dismisura e proietta le proprie gigantesche contraddizioni nell’odierno universo mediatico, nel quale le donne vivono una condizione profondamente svantaggiata, e come hanno mostrato in abbondanza tanti confronti nei mesi di campagna elettorale, non soltanto appaiono divise e diverse, ma soprattutto mostrano di essere spesso invisibili e inascoltate – anche nelle situazioni in cui sono presenti, tirano fuori la voce e riempiono le piazze del paese.

D’altra parte, quando le donne, come nelle manifestazioni del 13 febbraio, appaiono come un soggetto politico unitario, questa unità è senza altro necessaria, nonostante nasconda quella paradossale condizione di essere contemporaneamente uguali e diverse. Il problema è cosa accade dopo; nel momento in cui risalgono in superficie tutte le difficoltà per conservare sia la forza dell’unità che per rivendicare le differenze, interne e/o esterne.

Capire a cosa serve essere italiane mi sembra un obiettivo politico importante di questi tempi; ma è tutt’altro che un compito facile. I rettangolini non bastano, ma forse aiuterebbero.

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