La mostra fotografica dedicata al tema “Donne al lavoro (1900-1950)”, promossa da AIB (Associazione Industriale Bresciana e sostenuta dalla Provincia di Brescia, illustra le trasformazioni intervenute nelle condizioni di vita delle donne, inquadrandone soprattutto l’accesso al lavoro nel periodo compreso tra l’inizio del ‘900 e la fine della seconda guerra mondiale.“A 13 anni la mamma mi mandò a fare la servetta. Cominciai così la mia esperienza di lavoro che consisteva nel fare le faccende domestiche di casa in una famiglia. L’abitazione dove prestavo servizio era molto grande, dovevo pulire, lavare, stirare e poi guardare la Lisa, la piccolina di casa, cioè fare la {baglietta}. (—) Rimasi quattro anni presso quella famiglia, fino ai diciassette quando mi sposai per poter finire ‘sto calvario’. Con il matrimonio avrei avuto solo mio marito da servire”.
_ Questa scritta appare sotto una grande foto in bianco e nero di una bambinaia (1906).

Si tratta di una bella mostra appena aperta a Brescia in palazzo Martinengo con il titolo: ”{{ {Donne al lavoro (1900-1950)} }}”.
Promossa da AIB (Associazione Industriale Bresciana e sostenuta dalla Provincia di Brescia, illustra le trasformazioni intervenute nelle condizioni di vita delle donne, inquadrandone soprattutto l’accesso al lavoro nel periodo compreso tra l’inizio del ‘900 e la fine della seconda guerra mondiale.

Sono più di cento le foto e le gigantografie provenienti da archivi privati e pubblici, tra cui gli Alinari di Firenze e la Fondazione Negri di Brescia, che illustrano il lavoro delle donne nei primi cinquant’anni del Novecento.

Bellissimo il catalogo che riporta integralmente la mostra e pubblica una serie di saggi soprattutto di storiche delle università italiane, quali Angela Groppi, Elisabetta Vezzosi, Anna Bravo ecc..
_ Le ricerche sul lavoro femminile non sono state mai facili e continuano a esserlo, perché i registri parrocchiali a cui si deve fare ricorso, quasi sempre omettono i mestieri e le professioni riguardanti le donne. Gli uomini hanno avuto sempre un’identità sociale anche in relazione al mestiere, ma le donne invece risultavano piuttosto segnalate secondo lo stato civile di nubile, moglie, vedova, figlia, madre, sorella.

Nella letteratura di quegli anni si segnala, accanto alla rilevazione della minore capacità e forza, e del minore investimento per via delle maternità, il rischio di disonore e di corruzione a causa della promiscuità con il mondo maschile. Nei saggi in catalogo si rileva come soltanto a partire dal 1963, è stata riconosciuta alle donne l’accesso a tutti i pubblici uffici (compresa la Magistratura).

Fino a quasi la vigilia della prima guerra mondiale, le lavoratrici industriali raggiungono le seicentomila unità. Le foto raccontano queste presenze nei linifici, nell’industria della birra, nelle filande, negli stabilimenti tipografici e in quelli della lisciatura dei marmi ecc.

Nel 1902 viene approvata una legge sul lavoro delle donne e dei minori che prevede il divieto notturno (per i minori di 12 anni), un massimo di ore giornaliere di 12, e il congedo di maternità di quattro settimane dopo il parto. Ma una legge del 1929 introduce dei limiti escludendo alcune categorie di donne come le mondine.

E fino al 1919 restò in vigore una legge del 1865 che prevedeva l’istituto dell’autorizzazione maritale per l’esercizio di una professione.

Scrive Elisabetta Vezzosi che sull’evoluzione in senso egualitario dei generi, ha pesato in Italia “la presenza della Chiesa come istituzione nazionale, la centralità della famiglia come elemento costitutivo dell’identità italiana, il concetto di ‘azienda famiglia’, le differenze tra aree territoriali e le specificità regionali.”.

La cultura cattolica ha fortemente favorito l’identificazione delle donne con la famiglia e con la difesa dei valori comunitari, come d’altronde si evince anche dal’art. 37 della Costituzione Italiana (su 75 membri della commissione incaricata di redigere la carta costituzionale, le donne furono soltanto 4) “Le condizioni di lavoro devono consentire (alla donna) l’adempimento della sua essenziale funzione femminile”. Le foto mostrano lavoratrici intente a fabbricare bombe e proiettili per la prima grande guerra, periodo che vide l’entrata massiccia delle donne nel ciclo produttivo a causa dell’assenza degli uomini inviati sui fronti. Ogni remora cade quando si deve fare di necessità virtù.
_ Ma con l’avvento del fascismo , esattamente nel 1927, i salari femminili sono abbassati alla metà di quelli maschili. Le donne vengono anche escluse dall’anno successivo dall’insegnamento delle materie letterarie nei licei e devono pagare il doppio delle tasse nelle scuole e nelle università. Una legge del 1938 fissa nel 10 % come massimo l’impiego delle donne negli uffici pubblici.
_ Elena Palma scrive: ” Pesa su di loro non solo il pregiudizio che le vuole ‘naturalmente’ votate alle occupazioni domestiche, alla cura del marito e dei figli”.

Un saggio ricorda che fino al 1970 l’iscrizione delle donne nelle università è ancora assai ridotto.
_ In aggiunta a quanto scritto nel catalogo, si può ricordare che, per esempio, minima è la presenza delle donne nelle aule parlamentari e, ancora in quegli anni nel Comitato Nazionale del Movimento Femminile della Democrazia Cristiana, le donne sposate sono una rarità. Si trattava, comunque, di donne che si potevano concedere (o si erano potute concedere) l’aiuto delle balie e delle istitutrici.

La mostra si chiude con le foto del primo secondo dopoguerra di uno stabilimento di radiatori di Brescia dove una donna lavora in camice nel lindo laboratorio accanto a un collega. La didascalia ricorda che i bassi salari e la propaganda pro’familista, incoraggiano le donne sposate a lasciare il lavoro alla nascita dei figli.
_ Siamo già nella nuova era, quella attuale della problematica della conciliazione dei tempi di cura e di lavoro.

– [Per informazioni sulla mostra->http://www.bresciamostre.it/mostra-new.asp?idmo=56]