La stagione della dichiarazione dei redditi non è finita e, quindi, gli appelli per la scelta dei destinatari dell’8 per mille e del 5 per mille continuano a giungerci attraverso tutti i mezzi di comunicazione. In alcuni casi, si sta assistendo ad una vera e propria campagna pubblicitaria. Per l’8 per mille, la Chiesa cattolica italiana ci manda in continuazione spot televisivi che puntano a convincere che i fondi vanno alle opere sociali nel mondo; per invitare a destinare il 5 per mille a Telethon è sceso in campo Luca Cordero di Montezemolo. Più modestamente le associazioni di volontariato si affidano alla “catena di S. Antonio” degli appelli e-mail. Il motto è spesso “una firma che non costa nulla”.

E’ bene ricordare che la scelta dell’8 per mille introdotta con il nuovo concordato craxiano nel 1984 a favore della Chiesa cattolica italiana, ed estesa via via con successive intese ad altre “chiese”, organizzazioni rappresentative di altre opzioni religiose in Italia, riguarda l’8 mille di tutto l’introito Irpef dello Stato. Si tratta di una bella fetta di tasse che viene tolta alla gestione pubblica, allo Stato, per affidarla a poteri altri. Sicuramente i primi a risentirne sono i servizi sociali (pensiamo a quello che sta succedendo con la promessa di eliminazione dell’Ici sulla prima casa: si cominciano a diminuire i fondi per i piani contro la violenza sulle donne). Escludendo la scelta dell’8 per mille allo Stato, in ogni caso c’è una sorta di affidamento ad altri che non sia lo Stato del potere di controllo della utilizzazione di un patrimonio comune a tutte/i noi cittadine/i. {{La firma non costerà forse nulla a me, ma alla collettività?}}

Anche molte di noi donne, che non vogliono dare allo Stato o alla Chiesa cattolica, rivolgono la loro attenzione alla Chiesa valdese, che garantisce trasparenza e destinazione dei suoi fondi a progetti sociali. Ma anche questa è una “chiesa”, con una sua organizzazione più o meno patriarcale; non costa qualcosa in termini simbolici questa scelta?

D’altro canto, non si può non fare una scelta: le scelte non espresse vengono suddivise fra Stato ed inizialmente solo Chiesa cattolica, ora anche altre chiese, in proporzione alle scelte espresse. E dato che la chiesa cattolica è quella che raccoglie il maggior numero di scelte, si tratta di un ulteriore bel regalo concordatario alla Conferenza episcopale italiana, a cui è stato di fatto riconosciuto il potere di intervento politico nella società attraverso tutte le sue reti di attività sociali.

Quest’anno – è il governo a gestire questa quota ed il governo ha già detto che parte dei fondi non più provenienti dall’Ici vanno coperti con questa sorgente di introiti – anche la scelta dello Stato come destinatario dell’8 per mille crea un bel problema che solo la consapevolezza che le {{tasse sono fondamento dell’attuazione dei diritti costituzionali}} riesce a sciogliere.

Diversa è la questione della destinazione del 5 per mille del “proprio” Irpef, giunta al suo terzo anno di applicazione. Anche in questo caso, però, dietro c’è un problema di “sussidiarietà”, cioè di affidamento a soggetti privati di compiti sociali anche importanti. Si sa che il 5 per mille è stato un regalo del governo Berlusconi nella finanziaria 2006; quasi come una piccola sperimentazione del federalismo fiscale?

A fruire di questo 5 per mille, possono essere soggetti – associazioni onlus, enti – che operano in tre settori:volontariato, ricerca, sanità (gli elenchi sono pubblicati sul sito dell’Agenzia delle entrate www.agenzia entrate.it). Salutato come “strumento di democrazia”, segno di riconoscimento alla partecipazione della società civile alla solidarietà messa in campo dall’ampia rete di associazioni che operano nel nostro paese anche in collegamento con la rete mondiale, ora – mentre si hanno i dati sulle scelte effettuate ed è stato assicurato l’avvio in maggio dell’assegnazione delle quote derivanti dalla prima applicazione del meccanismo (2006) – si cominciano ad evidenziare alcuni problemi insiti nel meccanismo stesso.

Già in aprile, {{l’Istituto italiano della donazione}} ha lanciato la campagna di sensibilizzazione {{“5 per mille: informati prima di donare”}} per promuovere una destinazione informata e consapevole della quota 5×1000, con spot che invitano ad una attenta riflessione nella “individuazione. di quelle Organizzazioni che, nello svolgimento delle loro attività, si ispirano a criteri di serietà e trasparenza”.{{ La torta del 5xmille è grossa}}, perché poi l’Irpef di ognuno/a fa l’Irpef totale. Solo che quanto arriva alle associazioni dipende dall’Irpef di chi fa la scelta.

Una nota pubblicata dal notiziario cartaceo {{“un ponte per…”,}} pur ringraziando per le 1.084 scelte ricevute pari a circa 28.000 euro, nell’invitare ad un uso consapevole di questo strumento, mette in risalto{{ i rischi della dispersività delle donazioni e della possibile loro dipendenza dall’emotività}} del momento legata all’informazione su eventi drammatici. Solo restando nel primo settore – quello del volontariato, che raccoglie più adesioni – secondo i dati di “un ponte per…”, nel 2007 sono stati destinati quasi 175 milioni di euro a 32.000 associazioni ma metà delle scelte sono concentrate su sole 65 associazioni. Addirittura solo 9 associazioni recuperano il 20% delle scelte. Perché sono le grandi onlus che possono permettersi il lusso di campagne pubblicitarie vere e proprie. Dunque, la conferma che il 5xmille può essere un affare… non un aumento di democrazia partecipativa

Ma soprattutto c’è il rischio che questo meccanismo delegato di donazioni finisca con il deteriorare, almeno {{sminuire l’importanza del rapporto diretto associazione/donatore,}} che è poi quello su cui deve essere costruita una solidarietà consapevole, e al tempo stesso inquinare la vita delle associazioni. Non costerebbe nulla? Molte/i di noi, negli anni 80, hanno combattuto la scelta sindacale di delegare il datore di lavoro (nel caso lo Stato) a raccogliere le quote sindacali, un tempo raccolte attraverso il rapporto diretto fra rappresentante sindacale e lavoratrici/tori. L’abbiamo vista come l’inizio di un minor coinvolgimento del sindacato sui luoghi di lavoro e l’avvio della sua burocratizzazione.