Il webinar Donne e cittadinanza. Tra realtà e rappresentazione, del 19 febbraio 2021, da Fidapa -BWItaly/distretto Sud-Ovest, è stata un’iniziativa molto partecipata che ha affrontato tematiche, seppure da molto sul tappeto, con apporti inediti.

L’incontro è stato aperto e concluso da Rossella Del Prete (Presidente del Distretto Sud-Ovest, Fidapa BPW Italy).

Ai saluti di , Maria Concetta Oliveri (Presidente nazionale Fidapa BPW Italy) sono seguiti quelli di Giuseppe Soluri (Presidente Ordine dei Giornalisti – Calabria) che, sottolineando l’attualità del sottotitolo, ha parlato della “distanza non più siderale di una volta, ma ancora assolutamente evidente, tra diritti formalmente riconosciuti alle donne e diritti sostanzialmente vissuti dalle donne.” Le quali, “si sono da tempo affrancate da ogni tipo di soggezione nelle professioni dove riescono ad avere spazio, visibilità ed un’affermazione superiore a quella degli uomini – questo posso testimoniarlo rispetto ai giornalisti, in Calabria, dove la maggioranza sono donne – mentre c’è un fortissimo ritardo per quanto riguarda la parità di genere nella politica e, per la verità, anche nel mondo del lavoro nonostante le leggi esistenti.”

Soluri ha indicato come concausa della scarsa presenza delle donne nella politica, rispetto a quella nelle professioni, il prevalere, nelle seconde, del merito “mentre in politica contano altre cose, soprattutto in Italia, dove la politica non è solo l’arte del possibile ma del compromesso, della ricerca a tutti costi del consenso e del potere. Tutte caratteristiche che non appartengono o appartengono poco alle donne, che sono meno disponibili al compromesso, più nette nelle prese di posizioni, più legate ai propri ideali e hanno un rapporto meno fagocitante con la politica.”

La coordinatrice, Zina Crocé (giornalista, saggista e Vice Direttora del Notiziario Fidapa BPW Italy) ha rilevato gli intrecci del tema proposto con quelli dell’uguaglianza, della democrazia, della libertà formale e sostanziale, dell’empowerment di genere; ha riassunto un percorso documentale dell’impegno delle donne nella rivendicazione dei diritti (es. La Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, della rivoluzionaria Olympe de Gouges, e la Dichiarazione dei Sentimenti, di Elizabeth Cady Stanton e Lucretia Mott attiviste dei movimenti abolizionisti americani); ha sottolineato il mutamento sociale e di costume avvenuto nella seconda metà del Novecento ma che ancora fatica ad affermarsi del tutto, nella contemporaneità.

Di particolare impatto, il brano tratto da La donna giudice, ovverossia la grazia contro la giustizia (ed. Giuffrè, 1957) di Eutimio Ranelletti, Presidente di Cassazione, che temendo l’ingresso delle donne in magistratura ventilato da Aldo Moro (Segretario di Stato per la Grazia e la Giustizia), scrisse in merito alla “tremenda difficoltà e responsabilità del giudicare”:

“Giudicare è una funzione, che richiede intelligenza, serietà, serenità, equilibrio; che va intesa come ‘missione’, non come ‘professione’; e vuole fermezza di carattere, alta coscienza, capace di resistere ad ogni influenza e pressione, da qualunque parte essa venga, dall’alto o dal basso; approfondito esame dei fatti, senso del diritto, conoscenza della legge e della ragione di essa, cioè del rapporto – nel campo penale – fra il diritto e la sicurezza sociale; ed, ancora, animo aperto ai sentimenti di umanità e di umana comprensione, ed equa valutazione delle circostanze e delle ragioni che hanno spinto al delitto, e della psiche dell’autore di esso; coscienza della gravità del giudizio, e della gravissima responsabilità del giudicare.”(Fonte sito Pietro Ichino)

Elementi tutti mancanti “…alla donna che, in generale, absit injuria verbis, è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal pietismo, che non è la pietà; e quindi inadatta a valutare obbiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti.” (fonte: sito di Pietro Ichino)

Le donne sono entrate in magistratura solo nel 1965, grazie a una legge del 1963, quindici anni dopo la Carta Costituzionale; oggi, Marta Maria Carla Cartabia – costituzionalista, giurista, accademica, già la prima Presidente dellaCorte costituzionale (2019-2020) – è Ministra della Giustizia nel Governo Draghi ma gli stereotipi non per questo scompaiono. Emblematica la vicenda narrata da Zina Crocè del professore di bioetica dell’Università di Bari che durante una lezione di Medicina, in remoto, novembre 2020, ha affermato: “Giudici donne non dovrebbero essere perché giudicare significa essere imparziali e le donne sono geneticamente incapaci di imparzialità. ”L’intervento di due Consigliere di parità presso il Rettore lo ha fatto sollevare da qualsiasi incarico didattico nell’Università.”

La coordinatrice ha ricordato uno degli aspetti “antifemminili” della legislazione italiana, lo jus corrigendi, che consentiva ai mariti e ai padri di punire anche fisicamente mogli e figliolanza, superato solo nel 1956, nonostante l’art. 29 della Costituzione avesse proclamato la parità morale e giuridica dei coniugi, meglio codificata, nel 1975, nel nuovo Diritto di famiglia; ha esemplificato dissimmetrie semantiche che cambiano il senso comune dei termini se pronunciati al maschile o al femminile: “es. il termine ‘pubblico’associato al maschile fa pensare a un uomo che fa politica; al femminile, ha tutt’altra valenza riguardante la sfera della moralità e della sessualità, come quasi tutte le dissimmetrie a danno del femminile.

Per la ricchezza degli interventi, si prevede la pubblicazione di Atti cui rimandiamo, scusandoci di non poter dare spazio adeguato al materiale:Rappresentazione del femminile e Cittadinanza (Benedetta Barzini, Nuova Accademia di Belle Arti-Milano); Donne, cittadine costruttrici (Cristina Sivieri Tagliabue, Le Contemporanee); Cittadinanza di genere e secondarietà giuridica (chi scrive).

Nell’attesa, pubblichiamo stralci di quello d’apertura: Il concetto di Cittadinanza e i gap di genere (Melania Salazar, Università Mediterranea di Reggio Calabria).

Hanno patrocinato l’evento: Dipartimento Digies-UniMediterranea; Dipartimento di Diritto-UniSannio; Ordine dei Giornalisti della Calabria.


Il concetto di Cittadinanza e i gap di genere

Melania Salazar*

Quando noi parliamo di cittadinanza, parliamo di un concetto che ha attraversato i millenni al quale accostiamo il tema dell’uguaglianza soprattutto a partire dall’età moderna, dalla Rivoluzione francese.

I rivoluzionari si chiamavano tra loro “cittadini”. Il bersaglio era la società divisa in ceti, dunque la cittadinanza diventa portatrice di uguaglianza perché tutti coloro i quali sono identificabili come cittadini sono tra di loro uguali.

Nel momento in cui la parola cittadino si contrappone a suddito – questo porta la Rivoluzione francese, il passaggio da suddito a cittadino, cioè titolare di diritti fondamentali rivendicabili contro il potere pubblico – la cittadinanza diventa un supporto per l’uguaglianza.

È un rapporto controverso e complesso. Gli esseri umani che si trovano al di fuori della cerchia dei cittadini sono esseri umani diversi, quindi chi è cittadino, chi è protetto dalla cittadinanza all’interno del territorio statale, si trova in una situazione di vantaggio e di svantaggio chi cittadino non lo è: es. chi è straniero o chi è apolide (senza cittadinanza).

Segnalo la riflessione di una grande filosofa del Novecento, Hannah Arendt, sulla condizione di apolidìa in cui vennero gettate milioni di persone durante il nazismo e il fascismo, private della cittadinanza: es. la popolazione di fede ebraica. Lei sapeva bene di cosa stesse parlando avendo subito in prima persona queste persecuzioni. Persone private della cittadinanza, ridotte alla dimensione di apolidìa che le aveva gettate in un’astratta nullità di meri esseri umani e poi ridotte a carne da macello.

Anche all’interno della cerchia della cittadinanza il rapporto tra cittadinanza e uguaglianza è controverso.

Facciamo un piccolo passo indietro e andiamo a un’altra rivoluzione, quella dei Coloni americani che dà vita agli Stati Uniti d’America e alla Dichiarazione d’Indipendenza che ha un incipit famosissimo: tutti gli uomini nascono uguali e sono portatori di diritti: la vita, la libertà e la ricerca della felicità.

Ma chi sono questi “tutti”? Se pensiamo all’autore materiale della Dichiarazione, Tom Jefferson, lui aveva gli schiavi; la società che proclamava questi “tutti titolari di diritti” era una società schiavista.

Più ancora, se pensiamo al rapporto tra i coloni europei (di ogni provenienza), rispetto ai nativi americani. Quei tutti non è veramente tutti, ma è il tutti che intende chi è che scrive quelle norme e in quei tutti sono escluse una serie di categorie e soprattutto le donne.

All’alba del costituzionalismo e nel momento in cui si affermano principi importantissimi che ancora oggi si manifestano come particolarmente importanti – stiamo parlando delle due grandi rivoluzioni che hanno cambiato l’assetto del mondo e l’idea stessa  di democrazia – in realtà non è un concetto totale, conserva, incamera, include trascina con sé una serie di pregiudizi e stereotipi soprattutto nei confronti delle donne.

(…) Arrivando alla nostra Costituzione, all’Assemblea Costituente, dobbiamo ricordare che se ci furono posizioni reazionarie ci furono anche madri costituenti e queste 21 donne hanno lasciato un segno particolarmente importante nel superamento di quelle formule che affermano una cosa ma con la riserva mentale di escludere alcune categorie e in particolare le donne.

Questo ci fa capire l’importanza di esserci delle donne nei luoghi in cui si assumono decisioni politiche che riguardano tutti, perché nel momento in cui riguardano tutti è inevitabile che riguardino anche le donne.

Le donne non sono una minoranza, come sappiamo. Le donne sono una connotazione dell’umanità. Non esiste un intero sociale nel quale non siano presenti. Sesso, per chi studia l’etimologia delle parole, deriva dal latino secare, perché divide in due l’umanità, il maschile e femminile, che ritorna anche nelle problematiche dell’orientamento sessuale perché è sempre una questione di alternanza tra maschile e femminile.

Nel momento in cui si assumono decisioni che riguardano tutti, inevitabilmente riguarderanno anche le donne e la presenza delle donne nei luoghi in cui si assumono decisioni è importante perché il punto di vista delle donne porta a considerare esigenze che chi non ha quel punto di vistanon ha o non vuole prendere in considerazione.

Da quell’esperienza ricaviamo l’affermazione che precede il principio di uguaglianza: il divieto di discriminazione in base al sesso.

L’Art. 3 della nostra Carta costituzionale ha un incipit molto importante perché non ci dice soltanto che il legislatore non può fare discriminazioni in base al sesso (e altro), e non casualmente il sesso è posto come la prima causa di discriminazione da abbattere.

La nostra Costituzione ci dice anche il perché non si possono fare discriminazioni; non è solo una questione di natura occasionale, contingente, morale…c’è una ragione e la troviamo nelle prime parole dell’art. 3, tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. Questa è l’affermazione che supera quelle retoriche del tutti sono uguali perché ci dice che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e perciò sono uguali davanti alla legge.

Prima ancora che la legge ci veda, prima che ci guardi per autorizzarci o punirci, noi siamo tutti uguali in qualcosa e questo qualcosa è la dignità della persona.

In questo modo, la ragione per cui il legislatore non può fare distinzioni che incidano sulla dimensione della dignità della persona, ha il fondamento nel testo della Costituzione.

(…) Laddove il legislatore perpetui degli stereotipi che riproducano una concezione della donna come inferiore, portatrice di minorità, di una disabilità intrinseca congenita, queste leggi potrebbero essere e sono state in molti casi, dichiarate incostituzionali per violazione non soltanto del principio di uguaglianza ma del fatto che nessun trattamento deve essere tale da incidere sulla dignità degli esseri umani, quindi anche sulla dignità della donna. Ma c’è di più. La nostra Carta costituzionale ci dice che trattare le donne in modo tale da non creare discriminazioni che incidano sulla loro dignità, non significa sempre e comunque trattarle in  modo uguale agli uomini.

La vera uguaglianza non è quella cieca, ottusamente potremmo dire, alle differenze,

Nell’art. 37, l’Assemblea costituente, con la partecipazione importantissima delle madri, ha stabilito che le norme che riguardano le lavoratrici devono essere cieche alle differenze laddove si tratti di diritti, di remunerazione (cosa che non è ancora del tutto vera), ma devono avere gli occhi bene aperti alla valutazione e valorizzazionedella differenza, perché per la madre e per il/la bambin*, il legislatore deve apprestare norme che affrontino un’adeguata protezione.

Nei confronti del femminile il legislatore, dunque, deve essere cieco alle differenze laddove si tratti di trattare in modo uguale, per concretizzarela pari dignità tra esseri umani, ma deve avere gli occhi bene aperti, vedendo la differenza e valorizzandola, quando per l’appunto, se chiudesse gli occhi, otterrebbe l’effetto opposto, cioè di mortificare la pari dignità degli esseri umani.

Principio di uguaglianza non significa trattare tutti in modo assolutamente uguale ma trattare tutti in modo tale che la pari dignità venga rispettata, ora attraverso un trattamento di uguali, ora attraverso un trattamento diverso che tenga conto della speciale differenza delle donne.

La nostra Costituzione va ancora più avanti.

L’art. 3 si compone di due parti: nella prima, c’è il divieto di discriminazione, il principio d’uguaglianza formale; nella seconda, c’è il principio di uguaglianza sostanziale nel quale si dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione all’organizzazione economica, politica e sociale del Paese. “Di fatto” è un inciso voluto fortemente dalla più giovane delle nostre madri costituenti, Teresa Mattei, che aveva 25 anni.

Di fatto” vuol dire che non è detto che le discriminazioni nascano dalle norme perché se sono discriminanti potranno essere eliminate – es. nel 1981 è caduta l’orrida norma del delitto d’onore – non è detto che le discriminazioni derivino da un cattivo legislatore…il legislatore potrebbe essere ottimo ma ci sarebbe sempre il pericolo che, sul piano sociale e culturale, si mantenga una visione tale da giustificare discriminazioni; e penso che il fenomeno del femminicidio dia purtroppo una tragica, drammatica conferma di questa circostanza.

La norma dunque ci dice che contro le discriminazioni di fatto, che si realizzano nella realtà, senza che ci sia una norma che le autorizza o che le vieta, e anche se ci sia la norma, la nostra Repubblica non deve rimanere indifferente ma deve contrastare, fare di tutto per rimuovere l’ostacolo sia economico che sociale, cioè culturale.

È questa la norma alla base delle misure di riequilibrio per esempio nell’accesso alle cariche elettive, cioè a quelle che con una formula che secondo me bisognerebbe abbandonare, sono le quote rosa.

È questa la norma che dovrebbe consentire la rimozione di stereotipi femminili là dove si crea, si forma la cultura, si suggestiona l’opinione pubblica: es. nelle scuole e nei mass media.

Da questo punto di vista, il nostro Paese deve fare ancora, a mio avviso, grandi passi in avanti.

Il senso del ruolo che dobbiamo avere nello svolgimento della nostra attività, è quello di vigilare su questo tipo di intervento, e di sollecitare, criticare, partecipare, non stare a casa, non stare zitte, tanto non ci ghigliottinano come hanno fatto con Olympe de Gouges.

* Prof.ra Ordinaria di Diritto Costituzionale presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria; Associazione italiana dei costituzionalisti; Associazione nazionale degli studiosi della giustizia costituzionale - gruppo di Pisa; Commissione nazionale di esperti per le riforme costituzionali (Governo di E. Letta); responsabile scientifica del corso Donne, politica e Costituzione promosso dal Dipartimento P. O. della Presidenza del Consiglio dei Ministri organizzato dall’Università Mediterranea di Reggio Calabria in collaborazione con la Scuola superiore della Pubblica amministrazione.