Katia Bernabeo, Gli stereotipi nella storia delle donne: verso un’educazione di genere a partire dalla prima infanzia.

Università “G. D’annunzio” Chieti-Pescara, Scuola superiore G. D’annunzio, Dottorato di ricerca in Human Sciences, ciclo XXXI, settore scientifico-disciplinare m-ped 01, aa.aa 2015/2018; Coordinatore Prof. Marco Di Marzio; Tutor Prof. Saverio Santamaita.

PREMIO UNICO DOTTORATO SEZIONE TESI DI LAUREA E DOTTORATO – XXI Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne” & “Donne e Poesia”

Dopo un excursus storico sugli stereotipi secolari che hanno condizionato la definizione dell’identità femminile (e anche maschile), l’A. mette a fuoco il faticoso passaggio realizzato dal concetto tradizionale di lavoratrici votate “naturalmente” ai lavori legati al cosiddetto “istinto materno”, ad un nuovo attivismo femminile nel mondo del lavoro remunerato, che conduce alla difficile realtà definita di “doppia presenza”, condizionata da strumenti di conciliazione come i servizi per la prima infanzia, che a loro volta devono fare i conti dal prevalere dell’immagine della “donna educatrice per natura”. In Italia ovviamente il settore formativo è connotato dalle culture del ventennio fascista e dalla fondazione dell’ONMI, impegnata a perpetuare ruoli stereotipati.

Queste culture mutano lentamente nei decenni successivi a contatto con il nuovo benessere economico, i processi di urbanizzazione, l’emergere di un nuovo protagonismo femminile e giovanile. Con la legge n.1044 del 1971, che sancisce l’intervento statale nella formazione della prima infanzia, si avvia il passaggio dall’asilo nido al nido d’infanzia, ovvero si sgretola l’immagine del nido come servizio sociale, per renderlo presidio educativo che, inoltre, scardina la tradizionale relazione madre-figlio per aprirsi all’intervento di tutte le figure familiari, in primis il padre.

Un percorso che va insieme alla messa in crisi dell’immagine femminile tradizionale a partire da culture differenti: mentre gli studi di genere reputano l’identità individuale e donna, le culture “essenzialiste” pongono le differenze biologiche alla base dello sviluppo delle identità dei due sessi. Interessante l’analisi dell’A. sulle applicazioni della cultura di genere in campo storico, culturale, scientifico e sulle loro capacità di essere interpretate in maniera diversa, a volte contrastante, fino a suscitare timori irrazionali e reazioni furibonde (specie da parte del mondo cattolico).

Tutte le studiose sono in ogni caso d’accordo sulla necessità di intervenire nei primissimi anni di vita attraverso campagne di comunicazione e progetti educativi capaci di contrastare il persistere pervicace di culture stereotipate nella società e più specificamente nei giochi, nella pubblicità, nei programmi TV e in quelli della rete internet, nei libri per bambine/i. Riuscire a realizzare un’educazione al pensiero critico, alla consapevolezza, al linguaggio non sessista significa combattere violenza, omofobia, misoginia e razzismo.

L’A. conduce su questi temi un’indagine stringente e ben documentata, relazionando infine su alcune sperimentazioni fra cui quella realizzata in un nido d’infanzia dal titolo La campagna del fiocco bianco, che ha coinvolto educatrici, famiglie, le/i bambine/i, per testare l’eventuale presenza di stereotipi di genere nell’immaginario infantile e per combatterlo applicando una serie di tecniche pedagogiche innovative.