Pubblico qui una mia intervista uscita su glistatigenerali.com in vista delle Giornate della laicità che si svolgeranno dal 21 al 23 aprile a Reggio Emilia.

Da sempre la limitazione delle libertà e della capacità di autodeterminazione delle donne rappresenta un’ossessione per i fondamentalismi religiosi. Questo atteggiamento finisce con il rafforzarsi nell’era della globalizzazione e di una sempre maggiore commistione tra popoli, anche in quelle parti di mondo che hanno vissuto negli anni Settanta una grande stagione di lotta per i diritti civili, si riaccendono dibattiti intensi come quello sul velo, aspetto simbolico di una sempre più articolata problematica. In una società così complessa, la laicità dello Stato diventa l’unico presupposto per un mondo di pace, eguaglianza e giustizia per tutte e tutti.

Ne parliamo con Cinzia Sciuto, redattrice di MicroMega e una delle relatrici delle Giornate della laicità di Reggio Emilia, il festival sui diritti civili e di libertà in programma dal 21 al 23 aprile 2017. Tema di questa edizione, l’ottava, è “Trasformazione è donna. Pratiche, pensieri, esperienze femminili per nuovi modelli di vita e convivenza”.

Il festival è promosso da Iniziativa laica in collaborazione con Arci Reggio Emilia, Politeia e Fondazione critica liberale, in mediapartnership con Gli Stati Generali.

Il dibattito attuale su donne e fondamentalismi religiosi è spesso ricondotto alla religione islamica, eppure l’ossessione delle religioni per le donne e per la limitazione della loro capacità di autodeterminazione è comune a molte religioni: qual è l’elemento comune?

L’ossessione per il corpo delle donne e i tentativi di limitarne l’autodeterminazione, purtroppo, sono trasversali e comuni non solo a tutte le religioni, ma all’intera storia dell’umanità. Quel che è certo è che le religioni – in particolare le tre grandi religioni monoteistiche – hanno contribuito in maniera determinante alla condizione di sottomissione delle donne. Io penso che, da questo punto di vista, quel che accomuna le diverse religioni sia in generale il rifiuto del principio dell’autodeterminazione di ogni essere umano, che implica la messa in discussione di qualunque autorità, a partire ovviamente da quella religiosa. Insomma, non è una questione di fede, è una questione di potere.

Quando si parla di sottomissione della donna nelle religioni – pensiamo a tutto il dibattito sul velo – in molti casi si finisce con il giustificare certe limitazioni in nome di un multiculturalismo d’accatto, come lo ha definito lei stessa, che fa spesso da schermo a gravi violazioni di diritti. Qual è il suo punto di vista?

Sono convinta che ancora oggi nelle nostre società apparentemente secolarizzate le religioni godano di uno statuto speciale, grazie al quale si possono “permettere” limitazioni della libertà che in altri contesti sarebbero semplicemente inconcepibili. Se dei genitori costringessero i figli minori a iscriversi a un partito politico si urlerebbe allo scandalo, mentre il battesimo – che altro non è che l’iscrizione coatta di un essere incapace di intendere e di volere a un’associazione religiosa – non viene messo in discussione da nessuno. La religione islamica in particolare gode oggi di uno statuto per paradosso particolarmente privilegiato, perché ogni critica alla religione islamica è immediatamente tacciata di “islamofobia”, mentre se io critico anche duramente (cosa che faccio costantemente!) la Chiesa cattolica nessuno mi accusa di “cristianofobia”, parola che praticamente non esiste. Questo riflesso pavloviano è dovuto a un non meglio imprecisato senso di colpa della cultura occidentale nei confronti di qualunque altra cultura, che non va messa in discussione a prescindere. Ma qui, ovviamente, non si tratta di mettere in discussione intere culture tout court (che peraltro a loro volta non sono degli indistinti monoliti, esattamente come quella “occidentale”) ma di verificare di volta in volta (in maniera del tutto laica) se alcune specifiche pratiche, usi, costumi, tradizioni quale che sia la loro origine culturale e/o religiosa siano o meno compatibili con alcuni diritti fondamentali che l’umanità (sottolineo: l’umanità, non l’Occidente) ha faticosamente conquistato nei secoli.

Ciclicamente i media ripropongono il dibattito su velo o burkini e sulla possibilità di vietarlo in ambiti pubblici, come in spiaggia: è innegabile, tuttavia, che il fatto di indossare questi elementi spesso garantisca alle donne una libertà che altrimenti non avrebbero. Tra chi vorrebbe vietare tout court questi indumenti e chi invece li giustifica come tradizione culturale,  qual è la sua posizione?

I divieti sono degli strumenti giuridici che vanno usati quando si pensa che siano efficaci per raggiungere un certo obiettivo. Per cui non ho una posizione aprioristicamente a favore o contro un determinato divieto. Risponderei: dipende. Per esempio, mentre trovo inutile, oltre che difficilmente applicabile, un divieto del burkini sulle spiagge (abbiamo visto tutti le grottesche scene dei vigili che imponevano ad alcune donne in Francia di spogliarsi, creando peraltro l’occasione perfetta per delle provocazioni da parte dei fondamentalisti), trovo invece del tutto sensato il divieto di portare qualunque simbolo religioso o politico per i funzionari pubblici, innanzitutto insegnanti, così come deve essere impensabile che su richiesta della famiglia delle bambine non prendano parte a lezioni di sport o non  vadano in piscina. Però non sarei così sicura del fatto che “indossare questi indumenti spesso garantisca alle donne una libertà che altrimenti non avrebbero”. In paesi di lunga storia di immigrazione, come per esempio in Germania, dove attualmente risiedo, capita anche che donne che negli anni si erano emancipate e che non indossavano più nessun segno religioso negli ultimi tempi sentano nuovamente la pressione della propria comunità (ossia: degli uomini della propria comunità) perché tornino a indossarli. In altri termini, una diffusa accettazione sociale del velo dá una mano a mariti, padri e fratelli che vogliono imporlo a mogli, sorelle e figlie. Quel che voglio dire è che le questioni sono sempre complesse, quel che conta è avere chiari i princìpi a cui non siamo disposti a derogare, e quello dell’autodeterminazione delle donne deve essere uno di questi. Ci tengo a precisare: quando dico “noi” non intendo noi italiani, noi occidentali, noi cristiani ecc. Il mio è un “noi” normativo: la mia comunità di riferimento è quella che si riconosce nella difesa dei diritti umani, dei diritti delle donne, dei diritti delle minoranze. Insomma, per essere chiari, il mio “noi” include l’iraniana Mina Ahadi mentre esclude categoricamente l’italianissimo Matteo Salvini.

Di fronte a un ritorno sempre più prepotente del patriarcato, sotto forma di dettame religioso, quali sono gli obiettivi che deve porsi la lotta femminista? Nel dibattito tra donne e fondamentalismi, che ruolo può svolgere la laicità dello stato?

Difendere l’autodeterminazione delle donne, senza se e senza ma. E senza nessuna forma di soggezione a qualsivoglia autorità. Per questo la laicità è la nostra unica salvezza, perché essere laici significa mettere in discussione qualunque autorità. E la laicità non ha a che fare con la fede, ma con il rapporto fra la fede e la convivenza civile. Si può essere fervidi credenti e convinti laici. Laico è chiunque – credente o no – ritiene che ciascuno dei suoi simili abbia il diritto di decidere autonomamente sulla propria vita, esattamente come lui stesso. Attenzione: quel che conta è l’autonomia e la libertà delle singole persone, non dei gruppi o delle comunità, e allo Stato, laico, tocca il compito di tutelare ogni suo singolo cittadino, a partire dai bambini, a prescindere dalla comunità (famiglia, religione, gruppo etnico) in cui gli è capitato di nascere, fornendogli tutti gli strumenti per emanciparsi (se vuole) da quella stessa comunità.

Le giornate della Laicità si svolgeranno dal 21 al 23 Aprile a Reggio Emilia. Ecco il programma completo.