Le date simboliche mi appassionano fino a un certo punto, anche perché ne siamo inflazionati fino a perderne il senso. Tuttavia alcuni simboli hanno un valore innegabile: ci richiamano a pensare alla necessità di portare avanti la storia anche nella fatica e nei disinganni perché non possiamo essere incoerenti se confidiamo in qualche principio. I principi non sono astrazioni che basta nominare perché qualcuno – magari non noi – li applichi. Sono mete lontane, che tuttavia motivano il vivere; che, di per sé, non sarebbe gran cosa.
Il 2 ottobre è la giornata mondiale (voluta dalle Nazioni unite) della {{nonviolenza}}. Il correttore elettronico ancora censura la parola sullo schermo del computer e, forse, saranno molti quelli che, quando la leggono, credono che manchi la separazione per errore di stampa.

In realtà {{la parola nuova}} è uno di quei segnali linguistici che fanno comprendere che il motore della storia può non essere abbandonato al caso, ma pilotato, almeno simbolicamente, verso progressivi perfezionamenti sociali. Quindi “celebriamo”. E rendiamoci conto di quanto sia modesto il procedere verso la pur conclamata pace universale e quanto la violenza abiti ancora le coscienze umane.

Ho conosciuto direttamente in anni non lontani {{l’odissea degli obiettori di coscienza e la resistenza che era non solo nelle fila dell’esercito}}, ma nella mentalità comune a non ritenerli dei renitenti per viltà, per comodo individualistico, per rifiuto di quella disciplina militare che fa diventare uomini.

Oggi i cappellani militari non sarebbero più sostenitori di negatività e i tribunali non condannerebbero più don Milani e padre Balducci. Tuttavia la “violenza” non fa riferimento solo ad armi e guerre, che ormai non sono più idealizzate secondo quell’onore che permetteva alla violenza ritenuta “necessaria” dagli stati di avere i ministeri “della guerra” e non della difesa, anche se si dirà che non è cambiato molto, se tutti i patriottismi, anche quelli religiosi e ideologici, non sanno comporre civilmente i conflitti. Ma almeno da quando Freud ha richiamato alle pulsioni originarie e all’analogia tra il pene e l’arma,{{ la nonviolenza dovrebbe guidare tutti i comportamenti sociali,}} a partire da quelli interpersonali e familiari ancor oggi crudeli fino all’assassinio delle persone care e inermi.

Il disconoscimento della nonviolenza è {{uno scacco delle religioni}}. Il buddismo non è diventato cultura universale di nonviolenza, anche se ne aveva tutti i presupposti. Il Cristianesimo, che da sempre conteneva i principi del rifiuto di ogni violenza, privata e tanto più pubblica, non riesce a recuperare nemmeno nominalmente questo valore. Ci sono testimoni della nonviolenza nel vissuto delle confessioni cristiane del secolo più violento che ha visto nascere il fascismo e il nazismo e ha subito due guerre mondiali; ma non conosco approfondimenti teologici che valorizzino questa virtù come interna alle ragioni di fede. Infatti, {{come virtù, nasce laica.}}

Ma se è difficile per le religioni farsi nonviolente, {{non è facile neppure per le organizzazioni della società civile}}. Un mondo che idolatra il successo facile, il consumismo, la competizione non si apre al primo requisito nonviolento che è il riconoscimento dell’uguaglianza degli esseri umani e della stoltezza del principio di forza in qualunque modo applicato.

La sola forza degli umani è quella morale, dell’ingegno e dello spirito; per il resto, come diceva Lucrezio, siamo gli esseri più deboli della natura, quelli che nascono nudi piangendo il male che potranno vivere. Eppure stiamo tradendo libertà, giustizia, diritti, diseducando i figli e noi stessi, non solo nei confronti degli immigrati o dei disabili, ma scivolando nel {{baratro dell’ignoranza}}, proprio mentre l’ingegno e lo studio degli scienziati è in grado di darci macchine più raffinate delle nostre capacità di capire e prospettive di modificazioni della natura, anche umana, rischiose se affidate ad {{esseri ignoranti e irresponsabili. Quindi violenti.}}