Articolo di Valentina Parisi su alfa+più

In un articolo del 1938 Sergej Ejzenštejn definiva il montaggio come lo “strumento compositivo più efficace per dar forma al soggetto”, ossia per creare un’“immagine complessa e onnicomprensiva” che rendesse visibile il tema dell’opera. Tale posizione traeva sì linfa dalle sperimentazioni condotte in parallelo negli anni Venti dai colleghi registi Dziga Vertov e Lev Kulešov, ma al contempo s’innestava anche sulla coeva teorizzazione formalista dello sdvig, o straniamento, come espediente in grado di disinnescare la percezione usuale della realtà mediante un’inattesa “mossa del cavallo”. Uno scarto laterale e obliquo che, deviando dai percorsi rettilinei, era chiamato a mettere in relazione due o più entità apparentemente inconciliabili, onde svelare la natura convenzionale dell’arte – non rappresentazione di oggetti esistenti, bensì creazione di forme autonome.

Se l’osmosi creativa di Ejzenštejn con gli esponenti della scuola formale è attestata, e altrettanto lo è la vicinanza esistenziale, ancor prima che estetica, che lo unì a interlocutori assidui come Boris Pasternak, Vladimir Majakovskij e Dmitrij Šostakovič, meno esplorati appaiono invece i suoi contatti con altre figure dell’avanguardia europea e americana che all’epoca si stavano muovendo in una direzione analoga, alla ricerca di un approccio non mimetico, bensì trasformativo al mondo delle forme. Merito della mostra Sergej Ejzenštejn e l’antropologia del ritmo (a cura di Marie Rebecchi ed Elena Vogman, alla Fondazione Nomas di Roma fino al 19 gennaio 2018) è ripercorrere in maniera serrata questo percorso, presentando al pubblico italiano le tracce meno note del lascito ejzenštejniano che, in maniera sempre più sistematica, stanno affiorando dagli archivi russi e americani. L’esito è un’esposizione verrebbe da dire straniante, che contamina l’immagine ormai fossilizzata dell’autore di Ottobre, Sciopero e La corazzata Potëmkin con le sollecitazioni da lui captate al di fuori della madrepatria, lungo l’itinerario che dal 1929 al 1932 lo portò da Berlino fino in Messico, passando per Parigi, Londra e la Svizzera.

Momento cruciale, a tale riguardo, è l’incontro con Georges Bataille, avvenuto nel gennaio 1930 nella capitale francese e più precisamente alla Bibliothèque Nationale, dove l’autore della scandalosa Storia dell’occhio era all’epoca conservatore al Gabinetto numismatico. “Un’occupazione un po’ noiosa”, commentò nel suo diario il regista trentunenne, il quale tuttavia aveva apprezzato l’opportunità di conversare con il coetaneo a proposito del misterioso polimorfismo delle divinità gnostiche intagliate nella pietra, soffermandosi su bizzarre figure antropomorfe acefale o dalla testa leonina o di gallo e, soprattutto, su un blasfemo asino crocifisso. D’altro canto, l’interesse per “l’estatica trasgressione delle forme” – come rilevano le curatrici nel catalogo che accompagna la mostra – era uno dei principî-guida della rivista Documents, fondata da Bataille proprio l’anno precedente e da lui definita “una macchina da guerra contro le idee precostituite”, in una pluralità di ambiti che andavano dall’archeologia al jazz, dall’antropologia alla fotografia. Accostando in maniera stridente testi e immagini al fine di “sovvertire l’estetismo delle forme artistiche e il positivismo degli oggetti etnografici” (come dirà Georges Didi-Hubermann), gli autori di Documents – Michel Leiris, André Masson e Joan Miro su tutti – sperimentavano accoppiamenti inediti tra immagini attinte al passato come alla modernità, facendo ampiamente ricorso a quel principio di decomposizione e ricomposizione che è alla base del montaggio cinematografico.

E proprio il processo dinamico, potenzialmente infinito, della dissezione dell’ovvio e della ricostituzione di una nuova unità sarà al centro del viaggio di Ejzenštejn in Messico, che costituisce il fulcro concettuale della mostra. Un capitolo articolato in due momenti apparentemente lontani, eppure complementari: da una parte i sessantamila metri di pellicola (per una durata totale di quaranta ore) girati per il progetto mai concluso di ¡Que viva México! (finanziato dallo scrittore socialista americano Upton Sinclair); dall’altra il corpus dei “disegni automatici” o “segreti” realizzati a getto continuo dal regista durante i 14 mesi trascorsi in Messico, in una condizione estatica che confinava – così leggiamo nel diario – con la trance. Si tratta di minimalistiche composizioni a matita, spesso smaccatamente erotiche, dove le figure vengono evocate dal contorno di una linea quasi sempre bicolore, per enfatizzare gli incastri tra i corpi.

È suggestivo confrontare i disegni in cui affiorano tracce dell’universo visuale messicano (riti cattolici, danze pagane, processioni del Carnevale dei Morti, tauromachie) con le sequenze del film incompiuto, dove volti, paesaggi, rovine delle architetture maya e azteche, nonché frammenti della nuova realtà rivoluzionaria si combinano e si sovrappongono liberamente, a creare quella che le curatrici definiscono “un’archeologia dinamica dell’inconscio storico”. Tratto unificante, qui come altrove, è il ritmo, inteso come elemento di frattura, scomposizione, metamorfosi. E se in ¡Que viva México! prevale uno sguardo per così dire antropologico, che colloca il presente rivoluzionario all’interno di un orizzonte ciclico segnato dal susseguirsi di fasi di ripetizione e rottura, rivolta e ritorno, nei “disegni automatici” l’interesse si fa più esplicitamente morfologico, là dove, tramite l’abolizione del chiaroscuro come elemento illusionistico e la riduzione dell’anatomia umana a mera linea, Ejzenštejn tenta di fissare su carta (come scriverà egli stesso) “la trasformazione del plasma in umano”, ossia il momento in cui “l’uomo emerge dal brodo primordiale”.

Nel delineare con efficacia l’ampio arco delle fascinazioni intellettuali sperimentate dal regista russo durante il soggiorno all’estero (dai contatti con i surrealisti transfughi di Documents che polemizzavano con il dogmatismo di André Breton, fino ad arrivare alla gringa folklorista raccolta intorno alla rivista Mexican Folkways e al dialogo con i muralisti Diego Rivera e Clemente Orozco), la mostra lascia intendere che, all’inizio degli anni Trenta, Ejzenštejn si stava volgendo in una direzione sempre più prelogica, dove il montaggio diveniva anzitutto strumento per inscenare la regressione estatica verso strati sepolti della coscienza e della cultura. Lo testimonia la stessa rilettura che ne farà nella Teoria del montaggio (1937-1940), riallacciandosi nientemeno che al mito di Dioniso e del suo corpo smembrato dalle Menadi, ricomposto dal regista cinematografico in un’immagine totalmente trasfigurata. Tale evoluzione si interrompe però bruscamente a metà decennio a causa della crescente pressione ideologica – non a caso, a richiamare Ejzenštejn dal Messico nel maggio 1932 fu una telefonata di Stalin che lo tacciò di deviazionismo. Un’accusa purtroppo scontata per un’artista che dall’apertura verso mondi differenti, dall’inevitabile perdersi e ritrovarsi nell’Altro, non poteva esimersi, in sintonia con quanto sosteneva il suo amico Viktor Šklovskij: “La vita è trafitta da altre vite, da altri mondi, come l’aria dalla pioggia. Una ruota gira e si ingrana su un’altra. Non può essere, eppure è così. Lo sapete anche voi”.

 

Sergej Ejzenštejn e l’antropologia del ritmo  a cura di Marie Rebecchi ed Elena Vogman  Fondazione Nomas, Roma fino al 19 gennaio 2018